11 GENNAIO 1693 - " SICILIA BAROCCA: LA MORTE, L´ORRORE, LA FENICE " DI FRANCESCO EREDDIA
«Lu mundu è un specchiu magicu, ch’inganna
Cu’ finti oggetti e cu’ formi fallaci.
E’ un quatru di virdura, chi n’appanna
L’avidi sensi, e l’anima cumplaci:
è un labirintu, undi sempri s’affanna,
una rota volubili e fallaci,
una càrzara dura, una cundanna,
‘na guerra sutta mascara di paci».
Vita-specchio, vita-labirinto, vita-inganno: queste sono le immagini più ricorrenti nei poeti siciliani del Seicento, come il Morello di cui citiamo questi versi. C’è nell’intellettuale ‘barocco’ la concezione di un mondo guidato non dalla ragione e dalla conoscenza, ma dal caso, dai mille capricci mutevoli dell’apparenza, “formi fallaci”.
La visione del mondo si incupisce, si fanno più netti il senso della drammaticità del vivere e il conflitto interiore, sia morale che esistenziale, più intensi diventano l’aspirazione inappagata dell’eroico, il senso di frustrazione, il tormento religioso, l’orrore del nulla. C’è una profonda crisi prodotta dalla Controriforma, dalle lotte religiose, dall’Inquisizione e dall’oppressione feudale spagnola.
Insistente e ossessivo è nella poesia, sia in lingua che in dialetto, il ripetersi di temi esistenziali quali la fragilità della vita umana, la morte incombente sull’uomo, la caducità dei piaceri terreni. Si viveva sotto l’incubo del peccato e della punizione inflitta dai poteri religiosi e laici: abituale era lo spettacolo di condanne a morte eseguite pubblicamente e con grande partecipazione del popolo. La meditazione sulla morte era ricorrente nel poeta barocco, privato della sua libertà individuale, e lo spettacolo macabro dei cadaveri mummificati esposte nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo sottolineava la convivenza quotidiana dell’uomo del Seicento con la morte. Le esequie funebri, soprattutto dei personaggi di spicco, venivano celebrate con un fasto e una teatralità tetra e suggestiva.
Il mondo era un “mostru fallaci”, e l’immagine del teatro era una metafora diffusissima, metafora della vita con i suoi mutevoli e molteplici aspetti. Vita-teatro: l’equazione, così ricorrente in tutta la cultura europea del Seicento, nei siciliani sottolineava non soltanto la grandiosità della dell’esistenza umana, ma soprattutto la finzione e la falsità di un mondo dalle apparenze ingannevoli, che riserva all’uomo un destino di dolore e di morte.
***
All’unnici jinnaru e nun ni stornu,
pp’aviri affisu a Diu tantu supernu,
‘n tempu ‘n mumentu,
si vitti ‘ntro gnornu
Morti, Giudizziu, Paradisu e ‘Nfernu
Il grande evento dell’11 gennaio del 1693 sembrò materializzare in un attimo - ne cogliamo tutto l’orrore in questi versi anonimi – il quadro apocalittico della vita e del mondo che tanti poeti barocchi avevano tracciato per tutto un secolo.
Quel giorno un tremendo terremoto colpì la costa jonica della Sicilia: più di cinquanta centri abitati di quella vasta plaga del Val di Noto furono travolti dalla catastrofe. Questa la testimonianza di fra’ Filippo Tortora da Noto, testimone oculare:
«Fece un terrimoto così orribile e spaventoso che il suolo a guisa di mare ondeggiava, li monti traballando si diroccavano e la città tutta in un momento miseramente precipitò con la morte di circa mille persone. Cessato già questo sì fiero terremoto, si turbò il cielo e s’annuvolò il sole, per dar piogge, grandini, venti e tuoni».
Un altro poeta anonimo lamentava:
Si vitti e nun si vitti Terranova,
Vittoria sprufunnau ‘ntra la sciumara,
Commisu persi la so’ vita cara
E Viscari lu chiantu ci rinnova.
Tuttu Scicli trimau ‘ntra ‘na vaddata
E Modica murìu tra li timpuna,
Raùsa prestu cascàu tra li cavuna
E a Ciaramunti nun ristàu casatu.
Fu un’immensa distesa di rovine e di morti: da Catania a Siracusa, ad Avola, a Noto, a Modica, a Ragusa, a Vittoria, a Grammichele.
***
Ma senza quel “grande evento” il barocco in Sicilia sarebbe rimasto confinato nei versi infiniti prodotto dai tanti poeti di questa terra: versi che si perdono nel gran mare della produzione secentesca italiana, privi in fondo di una particolare originalità, perché priva di una grande personalità poetica fu la letteratura siciliana del XVII secolo.
Dopo quel “grande evento”, invece, avvenne il miracolo della ricostruzione, decisa dal viceré duca d’Uzeda e dal vicario generale duca di Camastra e realizzata da un esercito sterminato di urbanisti, architetti, mastri, maestri e scalpellini.
«Tutti – ha scritto Vincenzo Consolo – vollero e seppero ricostruire miracolosamente quelle città, con quelle topografie, con quelle architetture barocche: scenografiche, ardite, abbaglianti concretizzazioni di sogni, realizzazioni di fantastiche utopie. […] Sembrano insieme, le facciate di quelle chiese, di quei conventi, di quei palazzi pubblici e privati, nei loro movimenti, nel loro ondeggiare e traballare “a guisa di mare” … la rappresentazione, la pietrificazione, l’immagine, apotropaica e scaramantica, del terremoto stesso».
Sembrava così materializzarsi quello che era stato il simbolo più ricorrente dell’ansia religiosa del Seicento: la mitica fenice, che risorge dalle proprie ceneri, la morte-vita, la luminosa fenice che, per dirla con Barthes, “sembra ordinare simbolicamente la morte come il più puro momento della vita».
Essa si materializzava «su quei palcoscenici folgorati dal sole – sono parole di Consolo -, infatasmati dai pleniluni, tra quelle quinte di pietra intagliata, tra fantastiche mensole che sorreggono palchi, loggiati, tribune, tra allegorie, simboli ed emblemi, tra mascheroni e grottesche, tra rigonfi di grate e inferriate, tra cupole, campanili e pinnacoli, tra vie e viuzza, tra scalinate, sagrati e terrazze, contro fondali, prospettive impensate, in questa scenografia onirica o surreale, in questo ‘gran teatro del mundo’».
FRANCESCO EREDDIA
Cu’ finti oggetti e cu’ formi fallaci.
E’ un quatru di virdura, chi n’appanna
L’avidi sensi, e l’anima cumplaci:
è un labirintu, undi sempri s’affanna,
una rota volubili e fallaci,
una càrzara dura, una cundanna,
‘na guerra sutta mascara di paci».
Vita-specchio, vita-labirinto, vita-inganno: queste sono le immagini più ricorrenti nei poeti siciliani del Seicento, come il Morello di cui citiamo questi versi. C’è nell’intellettuale ‘barocco’ la concezione di un mondo guidato non dalla ragione e dalla conoscenza, ma dal caso, dai mille capricci mutevoli dell’apparenza, “formi fallaci”.
La visione del mondo si incupisce, si fanno più netti il senso della drammaticità del vivere e il conflitto interiore, sia morale che esistenziale, più intensi diventano l’aspirazione inappagata dell’eroico, il senso di frustrazione, il tormento religioso, l’orrore del nulla. C’è una profonda crisi prodotta dalla Controriforma, dalle lotte religiose, dall’Inquisizione e dall’oppressione feudale spagnola.
Insistente e ossessivo è nella poesia, sia in lingua che in dialetto, il ripetersi di temi esistenziali quali la fragilità della vita umana, la morte incombente sull’uomo, la caducità dei piaceri terreni. Si viveva sotto l’incubo del peccato e della punizione inflitta dai poteri religiosi e laici: abituale era lo spettacolo di condanne a morte eseguite pubblicamente e con grande partecipazione del popolo. La meditazione sulla morte era ricorrente nel poeta barocco, privato della sua libertà individuale, e lo spettacolo macabro dei cadaveri mummificati esposte nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo sottolineava la convivenza quotidiana dell’uomo del Seicento con la morte. Le esequie funebri, soprattutto dei personaggi di spicco, venivano celebrate con un fasto e una teatralità tetra e suggestiva.
Il mondo era un “mostru fallaci”, e l’immagine del teatro era una metafora diffusissima, metafora della vita con i suoi mutevoli e molteplici aspetti. Vita-teatro: l’equazione, così ricorrente in tutta la cultura europea del Seicento, nei siciliani sottolineava non soltanto la grandiosità della dell’esistenza umana, ma soprattutto la finzione e la falsità di un mondo dalle apparenze ingannevoli, che riserva all’uomo un destino di dolore e di morte.
***
All’unnici jinnaru e nun ni stornu,
pp’aviri affisu a Diu tantu supernu,
‘n tempu ‘n mumentu,
si vitti ‘ntro gnornu
Morti, Giudizziu, Paradisu e ‘Nfernu
Il grande evento dell’11 gennaio del 1693 sembrò materializzare in un attimo - ne cogliamo tutto l’orrore in questi versi anonimi – il quadro apocalittico della vita e del mondo che tanti poeti barocchi avevano tracciato per tutto un secolo.
Quel giorno un tremendo terremoto colpì la costa jonica della Sicilia: più di cinquanta centri abitati di quella vasta plaga del Val di Noto furono travolti dalla catastrofe. Questa la testimonianza di fra’ Filippo Tortora da Noto, testimone oculare:
«Fece un terrimoto così orribile e spaventoso che il suolo a guisa di mare ondeggiava, li monti traballando si diroccavano e la città tutta in un momento miseramente precipitò con la morte di circa mille persone. Cessato già questo sì fiero terremoto, si turbò il cielo e s’annuvolò il sole, per dar piogge, grandini, venti e tuoni».
Un altro poeta anonimo lamentava:
Si vitti e nun si vitti Terranova,
Vittoria sprufunnau ‘ntra la sciumara,
Commisu persi la so’ vita cara
E Viscari lu chiantu ci rinnova.
Tuttu Scicli trimau ‘ntra ‘na vaddata
E Modica murìu tra li timpuna,
Raùsa prestu cascàu tra li cavuna
E a Ciaramunti nun ristàu casatu.
Fu un’immensa distesa di rovine e di morti: da Catania a Siracusa, ad Avola, a Noto, a Modica, a Ragusa, a Vittoria, a Grammichele.
***
Ma senza quel “grande evento” il barocco in Sicilia sarebbe rimasto confinato nei versi infiniti prodotto dai tanti poeti di questa terra: versi che si perdono nel gran mare della produzione secentesca italiana, privi in fondo di una particolare originalità, perché priva di una grande personalità poetica fu la letteratura siciliana del XVII secolo.
Dopo quel “grande evento”, invece, avvenne il miracolo della ricostruzione, decisa dal viceré duca d’Uzeda e dal vicario generale duca di Camastra e realizzata da un esercito sterminato di urbanisti, architetti, mastri, maestri e scalpellini.
«Tutti – ha scritto Vincenzo Consolo – vollero e seppero ricostruire miracolosamente quelle città, con quelle topografie, con quelle architetture barocche: scenografiche, ardite, abbaglianti concretizzazioni di sogni, realizzazioni di fantastiche utopie. […] Sembrano insieme, le facciate di quelle chiese, di quei conventi, di quei palazzi pubblici e privati, nei loro movimenti, nel loro ondeggiare e traballare “a guisa di mare” … la rappresentazione, la pietrificazione, l’immagine, apotropaica e scaramantica, del terremoto stesso».
Sembrava così materializzarsi quello che era stato il simbolo più ricorrente dell’ansia religiosa del Seicento: la mitica fenice, che risorge dalle proprie ceneri, la morte-vita, la luminosa fenice che, per dirla con Barthes, “sembra ordinare simbolicamente la morte come il più puro momento della vita».
Essa si materializzava «su quei palcoscenici folgorati dal sole – sono parole di Consolo -, infatasmati dai pleniluni, tra quelle quinte di pietra intagliata, tra fantastiche mensole che sorreggono palchi, loggiati, tribune, tra allegorie, simboli ed emblemi, tra mascheroni e grottesche, tra rigonfi di grate e inferriate, tra cupole, campanili e pinnacoli, tra vie e viuzza, tra scalinate, sagrati e terrazze, contro fondali, prospettive impensate, in questa scenografia onirica o surreale, in questo ‘gran teatro del mundo’».
FRANCESCO EREDDIA