COMISO - SI INAUGURA OGGI POMERIGGIO, 5 GIUGNO , LA RETROSPETTIVA D´ARTE DEDICATA A FRANCESCO GIOMBARRESI, PRESSO LA SALA " BUFALINO ".
Ci piace ricordare, sul nostro giornale, Francesco Giombarresi, il pittore-contadino, riportando l´immagine romanzata tratta da " La fuggitiva di Rosacambra " di Girolamo Piparo, pp 199 e sgg.
" Si trattava delle opere di un pittore-contadino, uno dei tanti che popolavano il territorio di Rosacambra e che alternavano la dura fatica dei campi con il piacere dei colori, nei momenti e nelle giornate di riposo. Aveva affrescato case e cappelle, nelle campagne circostanti, prima di essere notato da alcuni signori della grande città ed essere introdotto nell´alta società, ricevendo inaspettatamente onori e denaro.
Se lo ricordava bene Andrea questo pittore-contadino, con le unghie delle mani perennemente sporche di terra e con i capelli raccolti sulla nuca grazie a un codino civettuolo, a compensare quasi la calvizie devastante sulla fronte.Quando non era chiamato a pronosticare le condizioni del tempo, osservando attentamente se le nuvole provenivano da occidente, a portare pioggia, o se il colore della luna dava sul rossiccio, preannunciando così tempeste di vento, il pittore–contadino si dava ai colori. Francesco, il pittore-contadino, smetteva repentinamente di potare le piante di agrumi, in tarda primavera, o di sistemare i tralci di vite, eliminando prontamente gli abbozzi di grappoli superflui, per esternare la sua abilità cromatica su tutto ciò che gli capitava tra le mani, fogli di carta, tele, pareti, persino sassi.
Era quasi colto da una furia maniacale: creava rapidamente lunghe teorie di volti, dal collo allungato e dallo sguardo assente, come avverrà nelle migliori produzioni degli espressionisti. Altre volte Francesco disegnava e dipingeva tanti minuscoli segni di petali di rose, anzi forse di fiori di pesco, o forse ancora di mandorlo, o un infinito di narcisi, racchiuso in pochi centimetri di ciuffi di colore.
Andrea se lo ricordava bene Francesco, quando questo, molto vicino allo stato di analfabeta, costretto ad essere tale dalla miseria dei tempi e dalle ristrettezze della famiglia, sciorinava tutta la sua furbizia, incantando i contadini ignari. Recitava versi, in una lingua misteriosa e sconosciuta, fatta di suoni gutturali e di sillabe biascicate con una sorta di scioglimento della lingua alla portoghese, di assonanze tipiche della rima baciata e di dolci cantilene dall´aria slava: sembrava quasi si trattasse della lingua con cui lo Spirito Santo si preannunciò agli apostoli attoniti.
Era il modo in cui, furbescamente, il nostro pittore-contadino era solito tirarsi fuori dagli impicci, dalle situazioni imbarazzanti, da un pronostico meteorologico errato, che irritava i contadini pronti alla semina o al raccolto: non potendo leggere il lunario di Barbanera, i poveri campagnoli si affidavano quasi ciecamente alle previsioni di Francesco. E questi si metteva a sproloquiare in una lingua misteriosa, fatta apposta per ammaliare gli astanti e ottenere rispetto anche dai nobili e dai padroni, che lo consideravano quasi un indemoniato sedato, uno sciamano siciliano, morso dalla taranta. Sembrava uno dei ciaravoli, uno di quei personaggi a cui da bambini, se si aveva l´impressione della morte prossima, venivano aperte di notte, precipitosamente, le porte delle chiese: si implorava un battesimo repentino, che evitasse, considerata la morte annunciata dalla malnutrizione o dal terribile morbo, le porte dell´inferno per i non battezzati.
Il pittore-contadino aveva dipinto tante e tante cose. Aveva regalato tutto, dissipando rovinosamente quei tarì, pochi o molti, che riusciva a guadagnare: era rimasto fedele all´antico adagio per cui è bene vivere magari un solo giorno, ma da leoni.
Spinto da questo modo di pensare, Francesco si permetteva lo sfizio di prendere una carrozza, con tiro a quattro cavalli, o un landò, più piccolo ma elegante, con tiro a due cavalli e copertura a doppio mantice color nocciola: si faceva, quindi, condurre nella più vicina città. Con premura il cocchiere si precipitava giù dalla cassetta per aprire la portiera della carrozza e aiutare il viaggiatore, per un giorno gran signore. Questi scendeva e iniziava a passeggiare annacandosi, con andatura dinoccolata, lungo la via principale. Si muoveva tra negozi scintillanti di luci, con in mostra dietro le vetrine splendide ceramiche di Caltagirone o candelabri d´argento a otto luci. Sulle prime era rimasto stordito di fronte a quel turbinio di cristalli, di argenti, di eleganza e di sfarzo: poi ci aveva fatto l´abitudine, come avviene per tutte le cose, ci aveva preso gusto e si era sollevato con la mente da solo diversi metri dal terreno, lievitando sopra quella massa polverosa e buzzurra di contadini e di sedicenti nobili del suo territorio.
Lo si doveva vedere il pittore-contadino, mentre salutava con un profondo inchino dame con lunghi strascichi di soffice seta, con mani e parte delle braccia nascoste dentro guanti adorni di merletti di San Gallo, con lo sguardo malizioso di chi è abituato al bel mondo e ai suoi riti.
Francesco era oramai a suo agio, lungo quella strada e durante la sua passeggiata dinoccolata, mentre si annacava. Era ammirato e ricercato, da uomini e da donne: dagli uomini per i suoi dipinti, dalle donne per la sua eleganza e per la sua generosità. Si pavoneggiava, mentre si appoggiava sul bastone con il pomello di cristallo: sul biancore della camicia faceva bella mostra un papillon di seta, una chiazza di rosso purpureo che animava il vestito scuro.
Il pittore-contadino, per un giorno, per un solo giorno, si trasformava nell´ ultimo dei gentiluomini, l´erede di quei nobili che non potevano più permettersi né un landò personale, né un cocchiere con la livrea del casato, né un bastone con il pomello d´argento o di cristallo. Era come se nel suo sangue scorresse la linfa, ormai asfittica, dei Tagliavini, dei Cutò, dei marchesi di Sciannacarao, dei baroni di Pietraperciata, dei principi di Aglianello. Di costoro aveva ereditato l´annacata, l´andatura dinoccolata, l´inchino cavalleresco, il vestire elegante.
Eppure il pittore-contadino non era neanche lontanamente erede naturale o biologico di qualche nobile. Semplicemente, fine osservatore qual era, si era impadronito dei modi di essere di persone di cui era stato a lungo al servizio o che aveva studiato durante le passeggiate nella grande città. Ora, quasi per una forma di nemesi storica, lui, antico contadino, riusciva a imitare perfettamente quel mondo che andava scomparendo sotto il peso dei debiti e che lo acclamava perché ricordava l´opulenza posseduta un tempo.
Di quel mondo Francesco riproduceva i comportamenti sdolcinati, gli atteggiamenti spocchiosi, le raffinatezze inutili: non fu dato mai sapere se per celia o per il sottile piacere della rivincita o dell´ umiliazione di chi, fino a poco tempo prima, aveva ostentato lusso e arroganza.
Che goduria, poi, essere ricercato e acclamato, implorato e osannato, per potere ottenere il privilegio di una tela, di un dipinto in cui il pittore-contadino potesse riprodurre le fattezze del galantuomo di turno. Questi si sottoponeva al supplizio di stare immobile, seduto su uno scranno o in piedi con il braccio appoggiato su una finta spada, per ore e ore, nell´attesa che il maestro, il vecchio pittore-contadino, avesse l´ ispirazione e immortalasse l´effigie aulica del nobile. Ovviamente l´effigie doveva essere aulica e mirare alla perfezione estetica: non si potevano tramandare ai posteri nasi adunchi, gobbe possenti, occhi strabici e tutto ciò che potesse essere visto come pienamente umano da parenti e contadini, da servi e visitatori. Quanto più il maestro era costretto ad adulterare la realtà, tanto più lauta era la ricompensa. Quanto più dalle tele venivano espunti quei volti orribili della nobiltà locale, decaduta per i debiti e resa esangue dai frequenti matrimoni tra consanguinei, tanto più il suo intervento pittorico era richiesto.
In questo modo Francesco era diventato quasi un confessore dei peccatucci dei suoi clienti, che a lui confidavano, durante le lunghe ore di posa dolorosamente statica per il ritratto, pene e problemi, vicissitudini e gioie, oramai sempre meno frequenti.
Le confessioni non risparmiavano neanche le nobildonne, le dame incipriate da riprodurre per la maggior gloria della famiglia. E le confessioni, in questo caso, finivano frequentemente nell´alcova.
Così Francesco godeva delle lenzuola di lino o di seta; godeva dei glutei e dei seni della baronessa, turgidi al primo tocco e pronti a regalare mille delizie ai baci di Francesco. Il pittore, ormai maestro, si accorgeva così del fatto che, una volta slacciato il corpetto e liberato il corpo della donna dalla fasciatura che stringeva il seno, il candore della pelle, levigata e senza un accenno di rughe, era lo stesso delle popolane che aveva posseduto o della moglie o della propria madre in età giovanile. La stessa sensazione Francesco avvertiva quando scioglieva l´ampia gonna di seta per possedere le gambe ben tornite e approfittare con curioso accanimento di tutto il resto.
In una cosa queste donne erano diverse da quelle umili, che lui aveva conosciuto. Erano esperienti, disinibite, non si accontentavano di poco e amavano fantasticare, durante gli amplessi, urlando ripetutamente una volta raggiunto l´orgasmo.
Con il codino, con cui raccoglieva i capelli dietro la nuca, Francesco, dagli occhi piccoli e vispi, vagava per i vicoli dei centri abitati di Rosacambra e per le campagne, cantilenando i suoi versi onomatopeici e incomprensibili, quando non era posseduto dal demone dell´arte o quando non cercava di rilassarsi leggendo, molto a stento per lo scarso esercizio e per la vista incerta, qualche raffinata poesia in dialetto, quella del catanese Micio Tempio, scomunicato prete e audace poeta dell´eros, o dell´arcade Giovanni Meli."