" LA FESTA, IL RITO, IL RITROVARSI " DI FRANCESCO EREDDIA
« Ma una festa religiosa – che cosa è una festa religiosa in Sicilia? ». Leonardo Sciascia, postasi questa domanda, rispondeva che « è tutto, tranne che una festa religiosa. È, innanzi tutto, una esplosione esistenziale, poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di "uomo solo" per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città ».
Questa domanda Sciascia se la poneva tanti decenni fa in un saggio – fra i tanti saggi, lucide e affascinanti analisi della ´sicilitudine´ – in cui presentava un libro fotografico, e precisamente le immagini straordinarie di Ferdinando Scianna sulle feste religiose in Sicilia. La risposta che lo scrittore siciliano trovava è esattissima, e gli studi etnoantropologici ne danno, se mai fosse necessario, una definitiva conferma.
Ogni festa, religiosa e non, siciliana e non, è in primo luogo una attività rituale inserita nell´organizzazione sociale del tempo; in secondo luogo, ogni festa è un´attività piacevole. Le due caratteristiche sono interdipendenti: essendo piacevole, la festa è ricordata nella memoria e anticipata nell´immaginazione, ed è per questo che tende a ripetersi nel tempo.
Durante la festa la popolazione si concentra in un stesso luogo, i rapporti e gli scambi umani si intensificano e la vita religiosa è ricca e di natura collettiva. Si ha come uno stato di "effervescenza sociale", un accrescimento della solidarietà e un rinnovamento dei legami sociali. La festa - dicono gli etnoantropologi ricorrendo anche alla sociologia, alla psicologia e alla psicoanalisi - è motivata anche da un bisogno smisurato di consumo e di spreco che è soppresso nella società borghese, tutta fondata sulla ferrea organizzazione del lavoro e sulla produttività.
Ancora oggi il rito che si rinnova ha, da un lato, la funzione di rinforzare i vincoli che uniscono l´individuo al Dio e ai santi, dall´altro quello di consolidare i vincoli che uniscono l´individuo alla società di cui è membro. La sfera del "sacro" e quella del "profano" non sono separabili, bensì intimamente legate tra di loro.
Tutte le feste religiose – divenute tali fin dall´alto Medioevo, quando la Chiesa innestò con intelligenza i nuovi riti cristiani sul tronco del vecchio paganesimo - sono ciò che resta di antichissimi riti delle società agricole, risalenti a un´èra in cui la sopravvivenza del gruppo sociale era affidata soprattutto al raccolto, che esigeva particolari tecniche protettive e propiziatrici fin dalla germinazione.
Ricordiamo, ad esempio, l´antichissimo mito di Proserpina (Kore per i Greci), la cui vita si svolgeva alternatamente sulla terra e nel mondo sotterraneo: quando essa risiedeva negli Inferi, sua madre Demetra (Cerere per i Romani), dea del grano e dei cereali, sospendeva in segno di lutto la vita della vegetazione. Proserpina era il simbolo dell´inferno, ma anche dell´inverno, e custodiva sotto terra non solo le anime ma anche i semi del grano, e quindi proteggeva la vegetazione e ne garantiva il ritorno periodico.
Cosicché c´era, per l´uomo primitivo, uno stretto legame tra la fertilità vegetale e la fecondità umana (cioè, la vita) da un lato, e le anime dei morti dall´altro. Antichissima, infatti, è la credenza che le anime dei morti sono all´origine di questa fertilità, essendo i corpi dei defunti, come i semi del grano, seppelliti sotto terra. Motivo per il quale ai morti bisognava offrire doni e propiziarseli.
Lo testimonia il fatto che nell´Europa primitiva la notte di Ognissanti - che cadeva fra l´1 e il 2 novembre (date in qualche modo assimilate nella comune mentalità cristiana) e veniva ritenuta il passaggio ufficiale dall´autunno all´inverno – si svolgeva una festa pagana dei morti, fatta di riti propiziatori della fecondità della terra nei quali i bambini svolgevano un ruolo molto importante. Perché questa centralità rituale dei bambini, ai quali – è appena il caso di ricordarlo - "per i morti" dalle nostre parti, cioè nella civiltà mediterranea, si fanno regali? Né diversamente avviene nella civiltà anglosassone con i riti di Halloween, con i ragazzi che vanno in giro con travestimenti macabri (rappresentazione simbolica dei morti) e con le tipiche maschere fatte di zucche intagliate e illuminate che simboleggiano scheletri umani che portano dentro la luce e la vita.
Nelle società primitive i bambini venivano sottoposti ai riti di iniziazione, che segnavano il loro ingresso nella vita adulta e nella società e simboleggiavano e simulavano in varie forme la "morte" del bambino e la sua "nascita" a un mondo nuovo da adulto. Ma finché non venivano sottoposti ai riti di iniziazione, i bambini non erano ancora considerati a tutti gli effetti membri della società e del mondo reale. Essendo cronologicamente ancora vicini alla nascita, erano considerati come sospesi tra il mondo "invisibile", in cui si trovavano prima della nascita (e in cui si ritorna dopo la morte) e il mondo "visibile", cioè quello reale e dei rapporti sociali.
Pertanto essi costituivano degli intermediari naturali fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Per questo erano oggetto di particolari attenzioni durante la festa e il rito dedicato ai defunti.
FRANCESCO EREDDIA
Questa domanda Sciascia se la poneva tanti decenni fa in un saggio – fra i tanti saggi, lucide e affascinanti analisi della ´sicilitudine´ – in cui presentava un libro fotografico, e precisamente le immagini straordinarie di Ferdinando Scianna sulle feste religiose in Sicilia. La risposta che lo scrittore siciliano trovava è esattissima, e gli studi etnoantropologici ne danno, se mai fosse necessario, una definitiva conferma.
Ogni festa, religiosa e non, siciliana e non, è in primo luogo una attività rituale inserita nell´organizzazione sociale del tempo; in secondo luogo, ogni festa è un´attività piacevole. Le due caratteristiche sono interdipendenti: essendo piacevole, la festa è ricordata nella memoria e anticipata nell´immaginazione, ed è per questo che tende a ripetersi nel tempo.
Durante la festa la popolazione si concentra in un stesso luogo, i rapporti e gli scambi umani si intensificano e la vita religiosa è ricca e di natura collettiva. Si ha come uno stato di "effervescenza sociale", un accrescimento della solidarietà e un rinnovamento dei legami sociali. La festa - dicono gli etnoantropologi ricorrendo anche alla sociologia, alla psicologia e alla psicoanalisi - è motivata anche da un bisogno smisurato di consumo e di spreco che è soppresso nella società borghese, tutta fondata sulla ferrea organizzazione del lavoro e sulla produttività.
Ancora oggi il rito che si rinnova ha, da un lato, la funzione di rinforzare i vincoli che uniscono l´individuo al Dio e ai santi, dall´altro quello di consolidare i vincoli che uniscono l´individuo alla società di cui è membro. La sfera del "sacro" e quella del "profano" non sono separabili, bensì intimamente legate tra di loro.
Tutte le feste religiose – divenute tali fin dall´alto Medioevo, quando la Chiesa innestò con intelligenza i nuovi riti cristiani sul tronco del vecchio paganesimo - sono ciò che resta di antichissimi riti delle società agricole, risalenti a un´èra in cui la sopravvivenza del gruppo sociale era affidata soprattutto al raccolto, che esigeva particolari tecniche protettive e propiziatrici fin dalla germinazione.
Ricordiamo, ad esempio, l´antichissimo mito di Proserpina (Kore per i Greci), la cui vita si svolgeva alternatamente sulla terra e nel mondo sotterraneo: quando essa risiedeva negli Inferi, sua madre Demetra (Cerere per i Romani), dea del grano e dei cereali, sospendeva in segno di lutto la vita della vegetazione. Proserpina era il simbolo dell´inferno, ma anche dell´inverno, e custodiva sotto terra non solo le anime ma anche i semi del grano, e quindi proteggeva la vegetazione e ne garantiva il ritorno periodico.
Cosicché c´era, per l´uomo primitivo, uno stretto legame tra la fertilità vegetale e la fecondità umana (cioè, la vita) da un lato, e le anime dei morti dall´altro. Antichissima, infatti, è la credenza che le anime dei morti sono all´origine di questa fertilità, essendo i corpi dei defunti, come i semi del grano, seppelliti sotto terra. Motivo per il quale ai morti bisognava offrire doni e propiziarseli.
Lo testimonia il fatto che nell´Europa primitiva la notte di Ognissanti - che cadeva fra l´1 e il 2 novembre (date in qualche modo assimilate nella comune mentalità cristiana) e veniva ritenuta il passaggio ufficiale dall´autunno all´inverno – si svolgeva una festa pagana dei morti, fatta di riti propiziatori della fecondità della terra nei quali i bambini svolgevano un ruolo molto importante. Perché questa centralità rituale dei bambini, ai quali – è appena il caso di ricordarlo - "per i morti" dalle nostre parti, cioè nella civiltà mediterranea, si fanno regali? Né diversamente avviene nella civiltà anglosassone con i riti di Halloween, con i ragazzi che vanno in giro con travestimenti macabri (rappresentazione simbolica dei morti) e con le tipiche maschere fatte di zucche intagliate e illuminate che simboleggiano scheletri umani che portano dentro la luce e la vita.
Nelle società primitive i bambini venivano sottoposti ai riti di iniziazione, che segnavano il loro ingresso nella vita adulta e nella società e simboleggiavano e simulavano in varie forme la "morte" del bambino e la sua "nascita" a un mondo nuovo da adulto. Ma finché non venivano sottoposti ai riti di iniziazione, i bambini non erano ancora considerati a tutti gli effetti membri della società e del mondo reale. Essendo cronologicamente ancora vicini alla nascita, erano considerati come sospesi tra il mondo "invisibile", in cui si trovavano prima della nascita (e in cui si ritorna dopo la morte) e il mondo "visibile", cioè quello reale e dei rapporti sociali.
Pertanto essi costituivano degli intermediari naturali fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Per questo erano oggetto di particolari attenzioni durante la festa e il rito dedicato ai defunti.
FRANCESCO EREDDIA