LA RUBRICA DI " KAIROS "- " LA NASCITA PATOLOGICA NELL´ EPOCA DELLA PERFEZIONE " DELLA DOTT/SSA MARIALUISA COLOMBO
Lo scorso anno l´Italia è risultato il Paese con il tasso di natalità (8xmille) più basso tra quelli dell´Ue. Lo ha reso noto Eurostat. Complessivamente, nei 28 Paesi dell´Unione, la popolazione è cresciuta passando da 508,3 a 510,1 milioni. Ma ciò, osserva Eurostat, è avvenuto solo grazie agli immigrati poiché tra i residenti le nascite (5,1 milioni) sono state inferiori alle morti (5,2 milioni).
Oggi, fare un figlio corrisponde ad istanze di affermazioni e realizzazione personali e di coppia, totalmente staccate da qualsiasi prospettiva sociale. Quest´ atteggiamento è accresciuto ancora di più da un elemento cruciale che caratterizza la transizione alla genitorialità negli ultimi dieci anni: la scelta. Nel tempo si è passati dal figlio come una conseguenza naturale di un desiderio sessuale di un uomo verso una donna, al figlio come oggetto di una volontà consapevole, se a questo aggiungiamo anche i progressi della medicina, la nascita di un figlio è diventata un evento intenzionale, voluto, il risultato di una decisione ponderata, presa da entrambi i membri della coppia. Oggi si può scegliere se avere un figlio o meno, quando volerlo e persino scegliere un sesso piuttosto che un altro.
Si cerca di stabilire a priori che cosa questa scelta può comportare sia in termini organizzativi che relazionali, si cerca di pianificare ogni cosa cercando di eliminare ogni "inconveniente".
I bambini sono considerati sempre di più un bene raro e prezioso, troppo spesso un investimento narcisistico degli adulti, una possibilità da non sciupare e troppo spesso da sfruttare.
Il bambino diventa il centro degli interessi dell´intero sistema familiare a tal punto che si assiste ad un´inversione di ruoli: è il bambino che deve soddisfare i bisogni affettivi degli adulti e non il contrario.
L´investimento amoroso convive col fatto che i figli sono immaginati dai genitori come loro proprietà esclusive.
Ma la realtà è differente, e i genitori sono chiamati a svolgere un ruolo difficile. Volere un figlio significa, a livello inconscio, rappresentarsi madre e padre, genitori, significa agire come chi ci ha preceduto, identificarsi con i propri genitori e acquisire una nuova identità.
Il primo incontro col figlio produce quasi sempre stupore e sorprese, poiché il neonato solo in parte corrisponde alle aspettative dei genitori.
Un bambino appena nato porta con sé conquiste ma anche delle rinunce per i neogenitori: è senza dubbio gratificante sentirsi generativi, percepire un nuovo senso di coesione, partecipare ai progressi che il bambino compie ogni giorno, vederlo crescere e svilupparsi, ma è anche difficile, gravoso dedicare gran parte del proprio tempo al suo accudimento, dover ridurre gli svaghi, il tempo passato con gli amici, le possibilità economiche e a volte sacrificare anche il lavoro della madre, accettare il cambiamento del rapporto di coppia e le inevitabili nuove tensioni tra i coniugi.
In tale contesto, eventi quali la presenza di malformazioni, di malattie croniche del bambino tende ad acquisire una valenza particolarmente intensa.
Generalmente, la comunicazione della diagnosi di un handicap viene fatta dal pediatra che ha in cura il bambino, ma in certi casi come quello di malattie croniche l´onere di comunicare l´esito dei risultati è affidato allo specialista che ha condotto tutti gli accertamenti. Un medico che ha a cura la salute psico-fisica del suo piccolo paziente e della sua famiglia sa che questo è un momento delicato e che deve tenere in considerazione diversi fattori come i vissuti emotivi e i meccanismi di difesa messi in atto dai genitori.
Nella prima comunicazione si attiva un flusso bidirezionale di informazioni tra medico e genitori, in cui il messaggio è veicolato dalle parole, dai gesti, dalle espressioni ma anche dai silenzi. Bisogna prestare attenzione alle caratteristiche del linguaggio che viene usato, che non deve essere troppo tecnico perché comporterebbe equivoci; né troppo semplicistico e riduttivo perché celerebbe la realtà. Migliorare il modo di comunicare la diagnosi riduce il rischio di incomprensioni, significa trovare un equilibrio tra la prassi da seguire e la disponibilità e il buon senso dell´operatore.
L´elaborazione della diagnosi da parte dei genitori richiede un lungo metabolismo e per questo le cose vanno dette e ridette, i genitori in questo momento hanno bisogno di sentirsi ascoltati, sostenuti, di ricevere rispetto e fiducia.
La prima reazione che segue la comunicazione della diagnosi è caratterizzata da shock e stordimento, disorientamento e impotenza, seguita da una fase di negazione e rifiuto.
Infatti, nei colloqui con i genitori spesso si sente dire: «Ma cresceva così bene», «Non è possibile ci deve essere un errore».
Può iniziare così una continua ricerca di conferma/disconferma che si traduce in veri e propri "pellegrinaggi" ai Centri specializzati e con la corsa alle cure più disparate, imponendo un´ intensa medicalizzazione del loro tempo e delle loro aspettative e delle loro risorse (anche economiche).
I genitori si sentono responsabili e pensano di avere in qualche modo fallito il loro compito e avvertono profondi sensi di colpa, che percepiscono ancora di più se la malattia è di tipo ereditario. In questa fase i genitori hanno bisogno che i loro sentimenti vengano accolti e metabolizzati da parte dello specialista, è fondamentale che quest´ultimo resti a loro disposizione, che li rassicuri, e che gli spieghi la patogenesi e l´eziologia della malattia, quando sono note.
Nel tentativo di arginare l´intensa sofferenza e le angosce di morte evocate dalla malattia del figlio, i genitori possono innalzare barriere difensive molto rigide. Il bambino diventa il centro di ogni attenzione della famiglia, il polo che attrae ogni energia; l´intera famiglia si stringe intorno al bambino come a volerlo difendere.
Infine, inizia un lento e interminabile adattamento alla realtà in cui i genitori si avvicinano alla disabilità del figlio e si riorganizzano per affrontarla. Percorso che, sembra inutile dire, ma in realtà è necessario ribadirlo, risulta più facile e agevolato se si viene seguiti da un´equipe di professionisti a più livelli. Da chi ha in cura il bambino a chi può sostenere i genitori come induvidui, come coppia coniugale e come coppia genitoriale.
dott/ssa Marialuisa Colombo
Oggi, fare un figlio corrisponde ad istanze di affermazioni e realizzazione personali e di coppia, totalmente staccate da qualsiasi prospettiva sociale. Quest´ atteggiamento è accresciuto ancora di più da un elemento cruciale che caratterizza la transizione alla genitorialità negli ultimi dieci anni: la scelta. Nel tempo si è passati dal figlio come una conseguenza naturale di un desiderio sessuale di un uomo verso una donna, al figlio come oggetto di una volontà consapevole, se a questo aggiungiamo anche i progressi della medicina, la nascita di un figlio è diventata un evento intenzionale, voluto, il risultato di una decisione ponderata, presa da entrambi i membri della coppia. Oggi si può scegliere se avere un figlio o meno, quando volerlo e persino scegliere un sesso piuttosto che un altro.
Si cerca di stabilire a priori che cosa questa scelta può comportare sia in termini organizzativi che relazionali, si cerca di pianificare ogni cosa cercando di eliminare ogni "inconveniente".
I bambini sono considerati sempre di più un bene raro e prezioso, troppo spesso un investimento narcisistico degli adulti, una possibilità da non sciupare e troppo spesso da sfruttare.
Il bambino diventa il centro degli interessi dell´intero sistema familiare a tal punto che si assiste ad un´inversione di ruoli: è il bambino che deve soddisfare i bisogni affettivi degli adulti e non il contrario.
L´investimento amoroso convive col fatto che i figli sono immaginati dai genitori come loro proprietà esclusive.
Ma la realtà è differente, e i genitori sono chiamati a svolgere un ruolo difficile. Volere un figlio significa, a livello inconscio, rappresentarsi madre e padre, genitori, significa agire come chi ci ha preceduto, identificarsi con i propri genitori e acquisire una nuova identità.
Il primo incontro col figlio produce quasi sempre stupore e sorprese, poiché il neonato solo in parte corrisponde alle aspettative dei genitori.
Un bambino appena nato porta con sé conquiste ma anche delle rinunce per i neogenitori: è senza dubbio gratificante sentirsi generativi, percepire un nuovo senso di coesione, partecipare ai progressi che il bambino compie ogni giorno, vederlo crescere e svilupparsi, ma è anche difficile, gravoso dedicare gran parte del proprio tempo al suo accudimento, dover ridurre gli svaghi, il tempo passato con gli amici, le possibilità economiche e a volte sacrificare anche il lavoro della madre, accettare il cambiamento del rapporto di coppia e le inevitabili nuove tensioni tra i coniugi.
In tale contesto, eventi quali la presenza di malformazioni, di malattie croniche del bambino tende ad acquisire una valenza particolarmente intensa.
Generalmente, la comunicazione della diagnosi di un handicap viene fatta dal pediatra che ha in cura il bambino, ma in certi casi come quello di malattie croniche l´onere di comunicare l´esito dei risultati è affidato allo specialista che ha condotto tutti gli accertamenti. Un medico che ha a cura la salute psico-fisica del suo piccolo paziente e della sua famiglia sa che questo è un momento delicato e che deve tenere in considerazione diversi fattori come i vissuti emotivi e i meccanismi di difesa messi in atto dai genitori.
Nella prima comunicazione si attiva un flusso bidirezionale di informazioni tra medico e genitori, in cui il messaggio è veicolato dalle parole, dai gesti, dalle espressioni ma anche dai silenzi. Bisogna prestare attenzione alle caratteristiche del linguaggio che viene usato, che non deve essere troppo tecnico perché comporterebbe equivoci; né troppo semplicistico e riduttivo perché celerebbe la realtà. Migliorare il modo di comunicare la diagnosi riduce il rischio di incomprensioni, significa trovare un equilibrio tra la prassi da seguire e la disponibilità e il buon senso dell´operatore.
L´elaborazione della diagnosi da parte dei genitori richiede un lungo metabolismo e per questo le cose vanno dette e ridette, i genitori in questo momento hanno bisogno di sentirsi ascoltati, sostenuti, di ricevere rispetto e fiducia.
La prima reazione che segue la comunicazione della diagnosi è caratterizzata da shock e stordimento, disorientamento e impotenza, seguita da una fase di negazione e rifiuto.
Infatti, nei colloqui con i genitori spesso si sente dire: «Ma cresceva così bene», «Non è possibile ci deve essere un errore».
Può iniziare così una continua ricerca di conferma/disconferma che si traduce in veri e propri "pellegrinaggi" ai Centri specializzati e con la corsa alle cure più disparate, imponendo un´ intensa medicalizzazione del loro tempo e delle loro aspettative e delle loro risorse (anche economiche).
I genitori si sentono responsabili e pensano di avere in qualche modo fallito il loro compito e avvertono profondi sensi di colpa, che percepiscono ancora di più se la malattia è di tipo ereditario. In questa fase i genitori hanno bisogno che i loro sentimenti vengano accolti e metabolizzati da parte dello specialista, è fondamentale che quest´ultimo resti a loro disposizione, che li rassicuri, e che gli spieghi la patogenesi e l´eziologia della malattia, quando sono note.
Nel tentativo di arginare l´intensa sofferenza e le angosce di morte evocate dalla malattia del figlio, i genitori possono innalzare barriere difensive molto rigide. Il bambino diventa il centro di ogni attenzione della famiglia, il polo che attrae ogni energia; l´intera famiglia si stringe intorno al bambino come a volerlo difendere.
Infine, inizia un lento e interminabile adattamento alla realtà in cui i genitori si avvicinano alla disabilità del figlio e si riorganizzano per affrontarla. Percorso che, sembra inutile dire, ma in realtà è necessario ribadirlo, risulta più facile e agevolato se si viene seguiti da un´equipe di professionisti a più livelli. Da chi ha in cura il bambino a chi può sostenere i genitori come induvidui, come coppia coniugale e come coppia genitoriale.
dott/ssa Marialuisa Colombo