" LA SICILIA DEI CAFFÈ LETTERARI " DI FRANCESCO EREDDIA
«Nel primo Novecento, quando la "Birraria" ci adunava, si vedeva ogni tanto De Roberto passare davanti al "quartier generale" come scivolando nel bagliore del sole. Allora i gesti larghi, le girandole, le sciabolate a parole che tagliavano l´aria, cadevano di colpo: e gli armigeri moschettieri di prosa e di poesia prendevano contatto con uno dei ´numi´ – uno di quelli che pareva doveroso guardar di lontano o seguire in silenzio riverente».
Così, con la visione di un attimo, almeno nel ricordo nostalgico del suo discepolo Ottavio Profeta, appariva ai giovani intellettuali catanesi seduti ai tavoli di un caffè la figura di Federico De Roberto, che nei suoi «Viceré» (1894) aveva non solo rappresentato in un poderoso affresco le lotte inesorabili e gli intrighi per la roba che dilaniavano la famiglia Uzeda, ma anche denunziato il fallimento del Risorgimento che aveva lasciato tutto come prima.
Il "nume" appariva assorto in quel silenzio letterario che caratterizzò anche e soprattutto il Verga degli ultimi anni catanesi, trascorsi dal grande scrittore verista seduto davanti alla porta del Circolo o del caffè sempre sulla stessa sedia e alla stessa ora del giorno.
Un ´silenzio´, questo, da cui appunto erano affetti, nei primi anni del Novecento, gli intellettuali siciliani della generazione precedente, inclini non senza compiacimenti intimistici al lamento sulla condizione umana e sull´eterna legge di inutilità, di sfaldamento e di morte cui le vicende umane soggiacciono. Proprio come farà, intorno alla metà di quel secolo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo «Gattopardo» (1958), romanzo perfezionato e limato e in più punti scritto al tavolo di un caffè.
La Catania rievocata da Ottavio Profeta è una città che nel primo decennio del Novecento aveva superato prodigiosamente i duecentomila abitanti. Una città operosa e dinamica che in quegli anni, sotto la guida dell´onorevole Giuseppe De Felice Giuffrida, che era anche prosindaco e presidente della Camera del Lavoro, conosceva un periodo di prosperità economica e di pace sociale.
Accanto alla Catania dei caffè intellettuali e dei circoli borghesi, lo diciamo per inciso, «un´altra Catania esisteva – afferma lo studioso Mario Sipala -, irriverente e rumorosa, a dispetto dei "numi": la interpretò Nino Martoglio nelle sue opere e nelle sue iniziative, espressione di un´umanità assai vivace, cordialmente litigiosa, sempre beffarda e ciarliera».
Una città "altra", dunque, più popolare, lontana (ancor più di quella dei caffè letterari) dagli estetismi intellettuali e dai tormenti esistenziali dei vecchi "numi".
***
I giovani intellettuali catanesi, «armigeri moschettieri di prosa e di poesia» che fendevano l´aria con gesti larghi e «sciabolate a parole», erano dunque gli abituali avventori di quei caffè letterari di cui si costellarono nel primo Novecento città come Catania, Firenze, Roma e Milano.
E se le sciabolate di cui parla Ottavio Profeta erano puramente metaforiche, semplice immagine a indicare l´animosità e la foga di tante discussioni politiche e letterarie della "Birraria" catanese, in quegli stessi anni al caffè Savini di Milano Filippo Tommaso Marinetti - padre del futurismo italiano e di quella ´cultura´ dell´aggressione e della violenza confluita poi ineluttabilmente nel fascismo – animava le serate con le sue esibizioni trasgressive. Lo si vedeva spesso al Savini, lui e il gruppo dei suoi fedelissimi che lì avevano il loro quartier generale, con lo sparato sporco, quasi afono per il grande urlare e talvolta insanguinato per le botte date e ricevute.
Erede della tradizione illuministica di fine Settecento (ricordiamo la rivista chiamata appunto «Il Caffè» dei fratelli Verri, che tanta importanza ebbe nella diffusione dell´Illuminismo italiano), il caffè era diventato luogo d´incontro, di scambio e magari di lettura e dibattito sulle notizie politiche e letterarie diffuse dai fogli periodici. Luogo di consumo di una bevanda alla moda e di conversazione, il caffè divenne centro di aggregazione e di diffusione politica, culturale e letteraria.
Negli stessi anni in cui gli «armigeri moschettieri» catanesi si davano convegno alla "Birraria" e Marinetti ostentava la sua grinta al Savini di Milano, il poeta Giovanni Papini per correggersi in pace le sue bozze andava al caffè "Giubbe Rosse" di Firenze, che ogni sera diventava luogo di ritrovo dell´intellettualità fiorentina.
Dai primi caffè illuministici, comunque, i caffè del primo Novecento ereditavano lo spirito rivoluzionario e trasgressivo, il gusto di muoversi controcorrente e di opporsi ai modelli politici e culturali imposti dal governo di turno. Già nella seconda metà dell´Ottocento convenivano, oltre a scrittori, pittori e librettisti d´opera, anche repubblicani e socialisti.
Il rapporto fra le istituzioni accademiche – i luoghi ufficiali della cultura letteraria – e i caffè si invertì. Essi non erano più semplici appendici delle prime, bensì fulcri del dibattito culturale e centri propulsori della produzione ed ´esibizione´ della letteratura. Né è un caso che il fascismo si mosse in direzione opposta: al fermento di idee dei caffè d´Italia, troppo liberi e ´anarchici´, oppose verso la fine degli anni Venti l´Accademia d´Italia, dentro la quale la letteratura veniva censurata, selezionata e irreggimentata definitivamente.
FRANCESCO EREDDIA
Così, con la visione di un attimo, almeno nel ricordo nostalgico del suo discepolo Ottavio Profeta, appariva ai giovani intellettuali catanesi seduti ai tavoli di un caffè la figura di Federico De Roberto, che nei suoi «Viceré» (1894) aveva non solo rappresentato in un poderoso affresco le lotte inesorabili e gli intrighi per la roba che dilaniavano la famiglia Uzeda, ma anche denunziato il fallimento del Risorgimento che aveva lasciato tutto come prima.
Il "nume" appariva assorto in quel silenzio letterario che caratterizzò anche e soprattutto il Verga degli ultimi anni catanesi, trascorsi dal grande scrittore verista seduto davanti alla porta del Circolo o del caffè sempre sulla stessa sedia e alla stessa ora del giorno.
Un ´silenzio´, questo, da cui appunto erano affetti, nei primi anni del Novecento, gli intellettuali siciliani della generazione precedente, inclini non senza compiacimenti intimistici al lamento sulla condizione umana e sull´eterna legge di inutilità, di sfaldamento e di morte cui le vicende umane soggiacciono. Proprio come farà, intorno alla metà di quel secolo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo «Gattopardo» (1958), romanzo perfezionato e limato e in più punti scritto al tavolo di un caffè.
La Catania rievocata da Ottavio Profeta è una città che nel primo decennio del Novecento aveva superato prodigiosamente i duecentomila abitanti. Una città operosa e dinamica che in quegli anni, sotto la guida dell´onorevole Giuseppe De Felice Giuffrida, che era anche prosindaco e presidente della Camera del Lavoro, conosceva un periodo di prosperità economica e di pace sociale.
Accanto alla Catania dei caffè intellettuali e dei circoli borghesi, lo diciamo per inciso, «un´altra Catania esisteva – afferma lo studioso Mario Sipala -, irriverente e rumorosa, a dispetto dei "numi": la interpretò Nino Martoglio nelle sue opere e nelle sue iniziative, espressione di un´umanità assai vivace, cordialmente litigiosa, sempre beffarda e ciarliera».
Una città "altra", dunque, più popolare, lontana (ancor più di quella dei caffè letterari) dagli estetismi intellettuali e dai tormenti esistenziali dei vecchi "numi".
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I giovani intellettuali catanesi, «armigeri moschettieri di prosa e di poesia» che fendevano l´aria con gesti larghi e «sciabolate a parole», erano dunque gli abituali avventori di quei caffè letterari di cui si costellarono nel primo Novecento città come Catania, Firenze, Roma e Milano.
E se le sciabolate di cui parla Ottavio Profeta erano puramente metaforiche, semplice immagine a indicare l´animosità e la foga di tante discussioni politiche e letterarie della "Birraria" catanese, in quegli stessi anni al caffè Savini di Milano Filippo Tommaso Marinetti - padre del futurismo italiano e di quella ´cultura´ dell´aggressione e della violenza confluita poi ineluttabilmente nel fascismo – animava le serate con le sue esibizioni trasgressive. Lo si vedeva spesso al Savini, lui e il gruppo dei suoi fedelissimi che lì avevano il loro quartier generale, con lo sparato sporco, quasi afono per il grande urlare e talvolta insanguinato per le botte date e ricevute.
Erede della tradizione illuministica di fine Settecento (ricordiamo la rivista chiamata appunto «Il Caffè» dei fratelli Verri, che tanta importanza ebbe nella diffusione dell´Illuminismo italiano), il caffè era diventato luogo d´incontro, di scambio e magari di lettura e dibattito sulle notizie politiche e letterarie diffuse dai fogli periodici. Luogo di consumo di una bevanda alla moda e di conversazione, il caffè divenne centro di aggregazione e di diffusione politica, culturale e letteraria.
Negli stessi anni in cui gli «armigeri moschettieri» catanesi si davano convegno alla "Birraria" e Marinetti ostentava la sua grinta al Savini di Milano, il poeta Giovanni Papini per correggersi in pace le sue bozze andava al caffè "Giubbe Rosse" di Firenze, che ogni sera diventava luogo di ritrovo dell´intellettualità fiorentina.
Dai primi caffè illuministici, comunque, i caffè del primo Novecento ereditavano lo spirito rivoluzionario e trasgressivo, il gusto di muoversi controcorrente e di opporsi ai modelli politici e culturali imposti dal governo di turno. Già nella seconda metà dell´Ottocento convenivano, oltre a scrittori, pittori e librettisti d´opera, anche repubblicani e socialisti.
Il rapporto fra le istituzioni accademiche – i luoghi ufficiali della cultura letteraria – e i caffè si invertì. Essi non erano più semplici appendici delle prime, bensì fulcri del dibattito culturale e centri propulsori della produzione ed ´esibizione´ della letteratura. Né è un caso che il fascismo si mosse in direzione opposta: al fermento di idee dei caffè d´Italia, troppo liberi e ´anarchici´, oppose verso la fine degli anni Venti l´Accademia d´Italia, dentro la quale la letteratura veniva censurata, selezionata e irreggimentata definitivamente.
FRANCESCO EREDDIA