" LA SICILIA GRECA RISCOPRE LE SUE ANTICHE RADICI " del prof. Francesco Ereddia

"Ma infine anche così, tra molti affanni,
tu giungerai, se il tuo desìo tu freni
e se freni il desìo dei tuoi compagni
quando, scampato al violaceo mare,
tu primamente all´isola Trinacria
accosterai la ben costrutta nave.
Là troverete a pascere le greggie
e le giovenche nitide del Sole,
che dall´alto ode tutto e tutto vede"
(Odissea, XI, vv. 104-109)
Questo predice l´anima dell´indovino Tiresia a Ulisse che è sceso nel regno dei morti per avere notizie sul suo futuro: egli approderà nell´isola "a tre punte", dove la vegetazione è rigogliosa e pascolano splendidi armenti e greggi, ma dovrà guardarsi, pena la vita sua e dei suoi compagni, dal violare quegli animali sacri al dio Sole. E´ questa, si può dire, la più antica testimonianza della letteratura occidentale mediterranea sulla Sicilia, "isola del sole", del dio Sole che «dall´alto ode tutto e tutto vede".
Omero, o chi per lui, componeva il suo poema tra la fine del IX e i primi dell´VIII secolo a.C., ma rievocava un mondo ormai da tempo scomparso e di cui era stato fissato il ricordo attraverso canti elaborati durante la massima fioritura di quella civiltà. Si trattava della civiltà minoica o egeo-cretese (2000-1400 circa a.C.) lasciata poi in eredità agli Achei della penisola greca dove assunse il nome di civiltà micenea (1500-1200 a.C.). A quel periodo dunque, a quello cioè acheo o miceneo, si riferiscono i viaggi di Ulisse attraverso il Mediterraneo, il «violaceo mare» dell´epica omerica.
Ma quando nell´VIII secolo veniva elaborata l´Odissea omerica era già cominciata quella vasta e programmata migrazione greca verso occidente che va sotto il nome di "colonizzazione". I viaggi e le peregrinazioni mediterranee di Ulisse erano dunque la poetica fusione tra quelli della precolonizzazione minoica e micenea e i più recenti della colonizzazione greca vera e propria.
In quell´VIII secolo a.C. la Sicilia con i suoi Siculi a est e i Sicani a ovest forse aveva perduto, o comunque ricordava in maniera confusa e mitizzata, quelle genti venute dall´Egeo che mezzo millennio prima avevano stabilito i primi contatti commerciali con l´isola. Ora i loro discendenti partivano dalle zone costiere della Grecia verso quella ´terra promessa´ da colonizzatori ossia da conquistatori: nel giro di due secoli erano destinati a trasformarla in uno dei centri più dinamici e fiorenti della civiltà mediterranea.
Partivano da Rodi, da Calcide, da Corinto: su ogni nave c´erano nuclei famigliari guidati da un sacerdote e un vate. Prima della partenza l´oracolo di Delfi nei suoi responsi prometteva a quegli emigranti terre fertili, grano, vino e pascoli abbondanti: la sacerdotessa di Apollo, la Pizia, pianificava infatti i flussi migratori, dava informazioni geografiche a quelli che si accingevano a partire e indicava le rotte da seguire.
Così, in quel secolo VIII a.C., giunse in Sicilia la prima di quelle "magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori ", di cui il principe di Salina nel "Gattopardo" celebra e lamenta, nello stesso tempo, l´arrivo e la permanenza nell´isola da venticinque secoli almeno.
Fra il 733 a.C. (anno in cui venne fondata la colonia corinzia di Siracusa) e il 598 a. C. ( in cui coloni siracusani fondarono Camarina), videro la luce le colonie di Leontini, Catania, Megara, Selinunte, Gela che a sua volta fondò Agrigento, Acre (odierna Palazzolo Acreide) e Casmene (odierna Giarratana, in territorio ibleo).
I Siculi che abitavano quelle plaghe da circa trecento anni non erano certamente selvaggi o cannibali: praticavano l´agricoltura e la pastorizia, non mancavano di artigiani e artisti che producevano ceramiche e manufatti metallurgici, erano pagani e avevano i loro dèi e i loro culti ed erano organizzati in stati e staterelli con i loro piccoli re. Avevano già avuto contatti commerciali con i Greci dell´età del bronzo (minoici e micenei) e dunque si ellenizzarono facilmente, ma anche i Greci, ormai lontani e sradicati dalla terra patria, in qualche modo si ´sicilianizzarono´, introducendo nei loro culti le divinità indigene, fatte di dee madri, ninfe e dèi fluviali, e assimilarono i culti locali naturistici. Insomma, fu ovviamente la cultura greca che assimilò quella sicula e non viceversa, ma questa nuova grecità, quella "siceliota" appunto, anche attraverso le contaminazioni con la cultura indigena assunse, rispetto alla grecità della terra d´origine, una sua peculiare fisionomia.
***
La riscoperta della grecità in Sicilia va ricollegata con la diffusione nell´isola dell´Umanesimo.
Iniziatore era stato il dotto siculo-spagnolo Cristoforo Scobar, canonico della cattedrale di Siracusa, che cominciò a diffondere in questa parte della Sicilia l´interesse per le antichità greche. Discepolo di Giano Lascaris (1445-1534), filologo e grande raccoglitore di manoscritti greci, lo Scobar ebbe a sua volta come discepolo il siracusano Claudio Mario Arezzo (1500 ca.-1575 ca.). L´Arezzo nel 1537 pubblicò il "De situ insulae Siciliae", in cui illustrava i siti archeologici della Sicilia greca e, fra le altre cose, collocava l´antica Casmene non nella pianura di Scicli, come i dotti sciclitani volevano, bensì presso la sorgente dell´Ippari, e dunque nella città di Comiso. Senza dimenticare l´altro siracusano, Vincenzo Mirabella, autore di un trattato di archeologia, o meglio di topografia, relativo alle catacombe di Siracusa e alle colonie greche di Sicilia, che invece collocava l´antica Casmene nel territorio di Scicli (come abbiamo già accennato più sopra, studi più recenti la collocano invece sul Monte Casale, a nord di Giarratana).
Il fatto è che i centri della contea erano allora protesi alla ricerca della loro identità culturale, e cercavano a tutti i costi di trovarla nella splendida eredità lasciata dagli antichi Greci. Questo interesse per la grecità aveva trovato la sua sintesi straordinaria e la sua accelerazione nel trattato "De rebus Siculis decades duo" - frutto di ventidue anni di pazienti e laboriose ricerche d´archivio e sul campo che lo avevano portato a percorrere quattro volte a piedi tutta l´isola - pubblicato nel 1558 da Tommaso Fazello (1498-1570), abate domenicano di Sciacca.
Fu appunto in questo clima culturale di innamoramento per la grecità che - come abbiamo avuto modo di affermare qualche settimana fa - Il Conservatore del patrimonio della contea di Modica, Scipione Celestre, ebbe l´idea di rifondare l´antica Camarina.
Se l´Umanesimo e il Rinascimento del resto d´Italia avevano avuto l´occhio rivolto all´antica Roma e alla civiltà romana, quello siciliano invece trovava in via del tutto naturale nella grecità le sue nobili radici.
Ma bisogna dire che ancor prima del Cinquecento aveva fatto capolino, in maniera certamente ancora nebulosa e confusa, l´interesse per la grande eredità ricevuta dai Greci.
Con Diploma di investitura del 5 giugno 1392 – qualche giorno appena dopo la decapitazione di Andrea Chiaramonte – il re Martino concedeva a Bernardo Cabrera la ricca e prestigiosa Contea di Modica. Al Cabrera venivano concessi le città e i castelli di Modica, Scicli, Spaccaforno e Chiaramonte, la signoria di Ragusa, la torre di Cammarana con i feudi, la foresta e il contado, il feudo di Comiso e il castello del Dirillo con le fortezze e i casali, nonché "i caricatoi di Pozzallo e Cammarana dai quali è lecito a voi e ai vostri successori estrarre dodicimila tratte di frumento, orzo e altre vettovaglie". Tutti i possedimenti concessi vengono descritti nel Diploma analiticamente e fin nei minimi dettagli, cose e uomini: i pascoli e i campi, le vigne e gli orti, i monti e le pianure, i boschi e le foreste, "i castellani, i feudatari, i cavalieri e le signore esercitanti un dominio, gli uomini e le donne tanto cristiani quanto ebrei".
Vi sono contemplati – e questo particolare ci riporta al discorso fin qui condotto - perfino i beni del sottosuolo: c´è infatti nel Privilegio di concessione un esplicito riferimento ai ritrovamenti di monete sepolte ("abscontium pecuniarum"), le "truvaturi" della tradizione favolistica siciliana.
I ritrovamenti di monete e di oggetti di metallo più e meno prezioso - che da tempo immemorabile affioravano ricorrentemente dalle viscere della terra in quella ch´era stata la gloriosa regione camarinese (cioè, il retroterra e l´entroterra grecizzati da Camarina fin dai primi tempi della sua fondazione) e che costituivano il retaggio delle antiche civiltà che in duemila anni si erano avvicendate in queste plaghe - dovevano essere un fatto così frequente e noto a livello sia popolare che dotto, che meritava di essere menzionato per le sue implicazioni economiche e culturali in un documento ufficiale di spessore, si direbbe oggi, "internazionale".
FRANCESCO EREDDIA
tu giungerai, se il tuo desìo tu freni
e se freni il desìo dei tuoi compagni
quando, scampato al violaceo mare,
tu primamente all´isola Trinacria
accosterai la ben costrutta nave.
Là troverete a pascere le greggie
e le giovenche nitide del Sole,
che dall´alto ode tutto e tutto vede"
(Odissea, XI, vv. 104-109)
Questo predice l´anima dell´indovino Tiresia a Ulisse che è sceso nel regno dei morti per avere notizie sul suo futuro: egli approderà nell´isola "a tre punte", dove la vegetazione è rigogliosa e pascolano splendidi armenti e greggi, ma dovrà guardarsi, pena la vita sua e dei suoi compagni, dal violare quegli animali sacri al dio Sole. E´ questa, si può dire, la più antica testimonianza della letteratura occidentale mediterranea sulla Sicilia, "isola del sole", del dio Sole che «dall´alto ode tutto e tutto vede".
Omero, o chi per lui, componeva il suo poema tra la fine del IX e i primi dell´VIII secolo a.C., ma rievocava un mondo ormai da tempo scomparso e di cui era stato fissato il ricordo attraverso canti elaborati durante la massima fioritura di quella civiltà. Si trattava della civiltà minoica o egeo-cretese (2000-1400 circa a.C.) lasciata poi in eredità agli Achei della penisola greca dove assunse il nome di civiltà micenea (1500-1200 a.C.). A quel periodo dunque, a quello cioè acheo o miceneo, si riferiscono i viaggi di Ulisse attraverso il Mediterraneo, il «violaceo mare» dell´epica omerica.
Ma quando nell´VIII secolo veniva elaborata l´Odissea omerica era già cominciata quella vasta e programmata migrazione greca verso occidente che va sotto il nome di "colonizzazione". I viaggi e le peregrinazioni mediterranee di Ulisse erano dunque la poetica fusione tra quelli della precolonizzazione minoica e micenea e i più recenti della colonizzazione greca vera e propria.
In quell´VIII secolo a.C. la Sicilia con i suoi Siculi a est e i Sicani a ovest forse aveva perduto, o comunque ricordava in maniera confusa e mitizzata, quelle genti venute dall´Egeo che mezzo millennio prima avevano stabilito i primi contatti commerciali con l´isola. Ora i loro discendenti partivano dalle zone costiere della Grecia verso quella ´terra promessa´ da colonizzatori ossia da conquistatori: nel giro di due secoli erano destinati a trasformarla in uno dei centri più dinamici e fiorenti della civiltà mediterranea.
Partivano da Rodi, da Calcide, da Corinto: su ogni nave c´erano nuclei famigliari guidati da un sacerdote e un vate. Prima della partenza l´oracolo di Delfi nei suoi responsi prometteva a quegli emigranti terre fertili, grano, vino e pascoli abbondanti: la sacerdotessa di Apollo, la Pizia, pianificava infatti i flussi migratori, dava informazioni geografiche a quelli che si accingevano a partire e indicava le rotte da seguire.
Così, in quel secolo VIII a.C., giunse in Sicilia la prima di quelle "magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori ", di cui il principe di Salina nel "Gattopardo" celebra e lamenta, nello stesso tempo, l´arrivo e la permanenza nell´isola da venticinque secoli almeno.
Fra il 733 a.C. (anno in cui venne fondata la colonia corinzia di Siracusa) e il 598 a. C. ( in cui coloni siracusani fondarono Camarina), videro la luce le colonie di Leontini, Catania, Megara, Selinunte, Gela che a sua volta fondò Agrigento, Acre (odierna Palazzolo Acreide) e Casmene (odierna Giarratana, in territorio ibleo).
I Siculi che abitavano quelle plaghe da circa trecento anni non erano certamente selvaggi o cannibali: praticavano l´agricoltura e la pastorizia, non mancavano di artigiani e artisti che producevano ceramiche e manufatti metallurgici, erano pagani e avevano i loro dèi e i loro culti ed erano organizzati in stati e staterelli con i loro piccoli re. Avevano già avuto contatti commerciali con i Greci dell´età del bronzo (minoici e micenei) e dunque si ellenizzarono facilmente, ma anche i Greci, ormai lontani e sradicati dalla terra patria, in qualche modo si ´sicilianizzarono´, introducendo nei loro culti le divinità indigene, fatte di dee madri, ninfe e dèi fluviali, e assimilarono i culti locali naturistici. Insomma, fu ovviamente la cultura greca che assimilò quella sicula e non viceversa, ma questa nuova grecità, quella "siceliota" appunto, anche attraverso le contaminazioni con la cultura indigena assunse, rispetto alla grecità della terra d´origine, una sua peculiare fisionomia.
***
La riscoperta della grecità in Sicilia va ricollegata con la diffusione nell´isola dell´Umanesimo.
Iniziatore era stato il dotto siculo-spagnolo Cristoforo Scobar, canonico della cattedrale di Siracusa, che cominciò a diffondere in questa parte della Sicilia l´interesse per le antichità greche. Discepolo di Giano Lascaris (1445-1534), filologo e grande raccoglitore di manoscritti greci, lo Scobar ebbe a sua volta come discepolo il siracusano Claudio Mario Arezzo (1500 ca.-1575 ca.). L´Arezzo nel 1537 pubblicò il "De situ insulae Siciliae", in cui illustrava i siti archeologici della Sicilia greca e, fra le altre cose, collocava l´antica Casmene non nella pianura di Scicli, come i dotti sciclitani volevano, bensì presso la sorgente dell´Ippari, e dunque nella città di Comiso. Senza dimenticare l´altro siracusano, Vincenzo Mirabella, autore di un trattato di archeologia, o meglio di topografia, relativo alle catacombe di Siracusa e alle colonie greche di Sicilia, che invece collocava l´antica Casmene nel territorio di Scicli (come abbiamo già accennato più sopra, studi più recenti la collocano invece sul Monte Casale, a nord di Giarratana).
Il fatto è che i centri della contea erano allora protesi alla ricerca della loro identità culturale, e cercavano a tutti i costi di trovarla nella splendida eredità lasciata dagli antichi Greci. Questo interesse per la grecità aveva trovato la sua sintesi straordinaria e la sua accelerazione nel trattato "De rebus Siculis decades duo" - frutto di ventidue anni di pazienti e laboriose ricerche d´archivio e sul campo che lo avevano portato a percorrere quattro volte a piedi tutta l´isola - pubblicato nel 1558 da Tommaso Fazello (1498-1570), abate domenicano di Sciacca.
Fu appunto in questo clima culturale di innamoramento per la grecità che - come abbiamo avuto modo di affermare qualche settimana fa - Il Conservatore del patrimonio della contea di Modica, Scipione Celestre, ebbe l´idea di rifondare l´antica Camarina.
Se l´Umanesimo e il Rinascimento del resto d´Italia avevano avuto l´occhio rivolto all´antica Roma e alla civiltà romana, quello siciliano invece trovava in via del tutto naturale nella grecità le sue nobili radici.
Ma bisogna dire che ancor prima del Cinquecento aveva fatto capolino, in maniera certamente ancora nebulosa e confusa, l´interesse per la grande eredità ricevuta dai Greci.
Con Diploma di investitura del 5 giugno 1392 – qualche giorno appena dopo la decapitazione di Andrea Chiaramonte – il re Martino concedeva a Bernardo Cabrera la ricca e prestigiosa Contea di Modica. Al Cabrera venivano concessi le città e i castelli di Modica, Scicli, Spaccaforno e Chiaramonte, la signoria di Ragusa, la torre di Cammarana con i feudi, la foresta e il contado, il feudo di Comiso e il castello del Dirillo con le fortezze e i casali, nonché "i caricatoi di Pozzallo e Cammarana dai quali è lecito a voi e ai vostri successori estrarre dodicimila tratte di frumento, orzo e altre vettovaglie". Tutti i possedimenti concessi vengono descritti nel Diploma analiticamente e fin nei minimi dettagli, cose e uomini: i pascoli e i campi, le vigne e gli orti, i monti e le pianure, i boschi e le foreste, "i castellani, i feudatari, i cavalieri e le signore esercitanti un dominio, gli uomini e le donne tanto cristiani quanto ebrei".
Vi sono contemplati – e questo particolare ci riporta al discorso fin qui condotto - perfino i beni del sottosuolo: c´è infatti nel Privilegio di concessione un esplicito riferimento ai ritrovamenti di monete sepolte ("abscontium pecuniarum"), le "truvaturi" della tradizione favolistica siciliana.
I ritrovamenti di monete e di oggetti di metallo più e meno prezioso - che da tempo immemorabile affioravano ricorrentemente dalle viscere della terra in quella ch´era stata la gloriosa regione camarinese (cioè, il retroterra e l´entroterra grecizzati da Camarina fin dai primi tempi della sua fondazione) e che costituivano il retaggio delle antiche civiltà che in duemila anni si erano avvicendate in queste plaghe - dovevano essere un fatto così frequente e noto a livello sia popolare che dotto, che meritava di essere menzionato per le sue implicazioni economiche e culturali in un documento ufficiale di spessore, si direbbe oggi, "internazionale".
FRANCESCO EREDDIA