PER IL 25 APRILE - " PASSATO E PRESENTE: LA STORIA, LA MEMORIA E IL GRANDE FRATELLO " DEL PROF. FRANCESCO EREDDIA.
Il peso del passato è fondamentale, indubbio è il suo valore fondante nei confronti del presente, del quale costituisce l´essenza più profonda. Ha scritto lo storico Hobsbawm: «Noi nuotiamo nel passato come i pesci nell´acqua: non possiamo sfuggirgli».
Compito della memoria è recuperare continuamente e mantenere intatto il passato, che è quasi un elemento naturale essenziale per la stessa esistenza attuale degli umani. E´ sempre stato così, tanto nelle società a tradizione orale, quanto in quelle a tradizione scritta.
Per gli antichi Greci le nove Muse erano figlie di Mnemosyne, la "Memoria": tutto il sapere umano, anche i suoi aspetti tecnici e artistici, sarebbe vanificato senza la memoria. In tanti miti greci c´è la figura del "mnemon", il servitore di un eroe che lo accompagna sempre per rammentargli un ordine divino, il cui oblio avrebbe per conseguenza la morte. E Dante, nel Proemio del c. II dell´Inferno, dice: "O muse, o alto ingegno, or m´aiutate, // o mente, che scrivesti ciò ch´io dico, // qui si parrà la tua nobilitate". La mente è, appunto, la memoria: è lei che "scrive", registra cioè in maniera indelebile quello di cui il poeta si limita semplicemente a "dire", a "parlare".
La memoria, dunque.
C´è la memoria individuale e c´è la memoria collettiva.
La memoria collettiva alimenta la storia, ma la storia è interpretazione e presa di distanza critica dal passato, mentre la memoria implica sempre una partecipazione emotiva ad esso, è sempre vaga, frammentaria e in qualche modo tendenziosa. Per questa ragione gli storici possono ben essere definiti i "guardiani della memoria".
Tuttavia, quando il passato viene considerato al servizio del presente, rischia di essere asservito al presente. Così è accaduto e continua ad accadere che il passato venga ricostruito, falsificato, restaurato, inventato, avversato, dimenticato e rimosso. Sono sempre in agguato gli "assassini della memoria", che hanno il compito di nascondere, occultare, depistare, allontanare dalla verità, distruggere la verità.
A questo proposito c´è un romanzo, 1984 di Orwell. Fu scritto nel 1948, dopo il secondo conflitto mondiale e la caduta delle due tremende dittature del fascismo e del nazismo, nel clima della "guerra fredda" tra il mondo occidentale e l´Europa dell´Est. Vi si immagina un Paese governato da un Partito onnipotente, con a capo il «Grande Fratello», un personaggio misterioso che nessuno ha mai visto e che comunica con i suoi sudditi attraverso un grande schermo.
In ogni stanza di ogni casa vi sono monitor e telecamere che controllano e fanno propaganda 24 ore su 24. Il Partito è governato dal cosiddetto Ministero dell´Amore che ha il compito di convertire tutti alla sua ideologia. Lo slogan principale di questo fantomatico Partito è «Chi controlla il passato controlla il futuro, e chi controlla il presente controlla il passato».
Così i libri di storia vengono corretti. Le ricorrenze cancellate o modificate nel loro significato: compito di questo Partito dell´Amore, infatti, è la "rieducazione della memoria".
Queste ´amnesie´ deliberatamente volute, che deformano o cancellano la memoria collettiva, fanno perdere l´"identità nazionale", così come l´amnesia che colpisce per un trauma o una malattia un individuo gli fa perdere la sua identità. Il protagonista di un romanzo di Gabriel Garcia Marquez, Cent´anni di solitudine, dimentica prima il nome dei figli, poi quello degli oggetti, infine il nome del suo popolo. Egli perde la sua identità, cioè la consapevolezza del suo proprio essere.
***
In Italia per un venticinquennio almeno (dai primissimi anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta) c´è stata, per esempio, una doverosa attenzione e sottolineatura ufficiale della ricorrenza del 25 aprile, anniversario della Liberazione, e della necessità di perpetuare la memoria dei più grandi principi e ideali che ispirarono la Resistenza contro il nazifascismo.
Poi è cominciato una sorta di balletto (pardon, dibattito) politico che ha messo tutti in un grande calderone: fascisti e antifascisti, difensori della dittatura e martiri della Resistenza. Così, in questo clima di ´amnesia´ nazionale, si giunse all´anno Duemila, quando fu istituita in Italia la «Giornata della Memoria», con prevalente, però, e quasi esclusivo interesse per l´Olocausto e lo sterminio del popolo ebraico.
Ma, nonostante l´endemica e ormai ineluttabile esistenza nel nostro Paese (dalle amministrazioni locali alle istituzioni regionali e a quelle nazionali) di una classe sedicente ´politica´ affetta in troppo larga misura da avidità di potere, arroganza, ignoranza e predisposizione a compromessi di ogni sorta, ci sono ancora, sparsi qua e là, dalle città metropolitane ai centri urbani più piccoli, dignitosi «guardiani della memoria».
Di fronte a un sistema politico e socio-economico divenuto ormai novello e moderno ´Grande Fratello´, grande manipolatore del passato oltre che maestro in quella che oggi si ama definire «post-verità» e in passato più semplicemente "menzogna, inganno", questi "guardiani" garantiscono la tenace persistenza della memoria, il ricordo cioè di quel passato più e meno recente senza il quale il presente risulta incomprensibile e come sospeso nel vuoto temporale.
Uno di questi è Stefano Pepi.
Nell´Arma dei Carabinieri da circa vent´anni il giovane Stefano Pepi, appassionato ricercatore storico degli eventi della seconda guerra mondiale ricostruiti dal punto di osservazione della cittadina in cui vive, Acate (l´antica Biscari), ha esordito nel 2011 con un saggio storico in collaborazione con Domenico Anfora, «Obiettivo Biscari» edito da Mursia, sulle stragi commesse dall´esercito di invasione angloamericano nel luglio del ´43 proprio nel territorio fra il Dirillo e l´Ippari.
Adesso questo nuovo saggio, «Biscari fascista. Crimini politici e militari, odi, intrighi, guerre e opere nel ventennio».
Basandosi rigorosamente sui documenti d´archivio (l´Archivio di Stato di Ragusa, Siracusa e Catania, nonché quello comunale della sua cittadina) Pepi ricostruisce il ventennio fascista della sua Acate, dall´avvento del regime, passando per alcuni crimini politici perpetrati ai danni di cittadini antifascisti, fino alla fascistizzazione della scuola, dell´edilizia e degli slogan murali. Il tutto facendo nomi e cognomi dei principali esponenti della milizia fascista locale (gerarchi, centurioni, capimanipolo, etc.) e suscitando a volte, com´era prevedibile, l´inevitabile risentimento dei diretti discendenti. In nome della rigorosa verità storica, insomma, Stefano Pepi non ha voluto adeguarsi agli accomodamenti postbellici di cui si avvertiva nel 1944 un´eco anche a livello musicale: «cu´ ha avutu, ha avutu, ha avutu, / cu´ ha datu, ha datu, ha datu, / scurdammoce ´o passatu...».
Quindi il saggio passa a ricostruire - con una dovizia di particolari degna di un appassionato e attraverso le testimonianze di prima mano (diari e memorie) dei comandanti e degli ufficiali e sottufficiali americani che vi presero parte, nonché dei cittadini acatesi che vi si trovarono coinvolti da bambini – i momenti dello sbarco a Macconi e le varie fasi della battaglia di Acate. Il tutto con precisi riferimenti a battaglioni, brigate, etc. e agli ufficiali che condussero quelle operazioni militari dallo sbarco alla conquista definitiva del territorio.
Il saggio si conclude con un riferimento al processo di defascistizzazione, con il consueto patetico spettacolo di quanti, compromessi col regime, all´ultimo momento avevano buttato alle ortiche camicie nere e berretti e avevano atteso che passasse la furia degli eventi. D´altro canto, un detto siciliano molto antico, espressione di un popolo abituato per secoli a invasioni di eserciti stranieri, suona così: «Càlati jiuncu, ca passa la china».
C´è un capitolo che mi ha coinvolto in modo particolare. Si tratta della fucilazione avvenuta a Vittoria del podestà di Acate Giuseppe Mangano, del figlio e del fratello.
Attraverso le numerose testimonianze di quanti da bambini assistettero a quel tragico evento, Pepi ne ha ricostruito i drammatici momenti.
Il 10 luglio del ´43, il podestà, prima che gli americani che avevano già occupato Vittoria giungessero ad Acate, caricando sull´auto dei gioielli e in compagnia della moglie, del figlio diciassettenne, del fratello e di altre due donne di casa, si diresse verso Modica, dove viveva un altro suo fratello. Bloccati a un posto di blocco posto in via Cavour all´incrocio con la via Roma, gli uomini vennero fatti scendere e condotti assieme a una dozzina di soldati italiani fatti prigionieri in precedenza verso Piazza Italia. Poi, salendo a destra per la via Vicenza o la via Milano, il gruppo raggiunse contrada Terrepupi , dove avvenne la fucilazione di tutti i prigionieri, compreso il giovanissimo figlio del podestà. Stefano Pepi, col suo fiuto di carabiniere, ha individuato la casa colonica a ridosso dei binari ferroviari e ormai in totale abbandono (che anch´io ho visto), da cui alcuni testimoni assistettero non visti all´eccidio.
Il nostro giovane ricercatore, peraltro, sta completando un altro saggio dedicato proprio a Vittoria: il ventennio fascista, la militarizzazione tedesca della città, lo sbarco americano, gli eventi, gli uomini, i protagonisti e le vittime. Gli auguriamo buon lavoro.
FRANCESCO EREDDIA
Compito della memoria è recuperare continuamente e mantenere intatto il passato, che è quasi un elemento naturale essenziale per la stessa esistenza attuale degli umani. E´ sempre stato così, tanto nelle società a tradizione orale, quanto in quelle a tradizione scritta.
Per gli antichi Greci le nove Muse erano figlie di Mnemosyne, la "Memoria": tutto il sapere umano, anche i suoi aspetti tecnici e artistici, sarebbe vanificato senza la memoria. In tanti miti greci c´è la figura del "mnemon", il servitore di un eroe che lo accompagna sempre per rammentargli un ordine divino, il cui oblio avrebbe per conseguenza la morte. E Dante, nel Proemio del c. II dell´Inferno, dice: "O muse, o alto ingegno, or m´aiutate, // o mente, che scrivesti ciò ch´io dico, // qui si parrà la tua nobilitate". La mente è, appunto, la memoria: è lei che "scrive", registra cioè in maniera indelebile quello di cui il poeta si limita semplicemente a "dire", a "parlare".
La memoria, dunque.
C´è la memoria individuale e c´è la memoria collettiva.
La memoria collettiva alimenta la storia, ma la storia è interpretazione e presa di distanza critica dal passato, mentre la memoria implica sempre una partecipazione emotiva ad esso, è sempre vaga, frammentaria e in qualche modo tendenziosa. Per questa ragione gli storici possono ben essere definiti i "guardiani della memoria".
Tuttavia, quando il passato viene considerato al servizio del presente, rischia di essere asservito al presente. Così è accaduto e continua ad accadere che il passato venga ricostruito, falsificato, restaurato, inventato, avversato, dimenticato e rimosso. Sono sempre in agguato gli "assassini della memoria", che hanno il compito di nascondere, occultare, depistare, allontanare dalla verità, distruggere la verità.
A questo proposito c´è un romanzo, 1984 di Orwell. Fu scritto nel 1948, dopo il secondo conflitto mondiale e la caduta delle due tremende dittature del fascismo e del nazismo, nel clima della "guerra fredda" tra il mondo occidentale e l´Europa dell´Est. Vi si immagina un Paese governato da un Partito onnipotente, con a capo il «Grande Fratello», un personaggio misterioso che nessuno ha mai visto e che comunica con i suoi sudditi attraverso un grande schermo.
In ogni stanza di ogni casa vi sono monitor e telecamere che controllano e fanno propaganda 24 ore su 24. Il Partito è governato dal cosiddetto Ministero dell´Amore che ha il compito di convertire tutti alla sua ideologia. Lo slogan principale di questo fantomatico Partito è «Chi controlla il passato controlla il futuro, e chi controlla il presente controlla il passato».
Così i libri di storia vengono corretti. Le ricorrenze cancellate o modificate nel loro significato: compito di questo Partito dell´Amore, infatti, è la "rieducazione della memoria".
Queste ´amnesie´ deliberatamente volute, che deformano o cancellano la memoria collettiva, fanno perdere l´"identità nazionale", così come l´amnesia che colpisce per un trauma o una malattia un individuo gli fa perdere la sua identità. Il protagonista di un romanzo di Gabriel Garcia Marquez, Cent´anni di solitudine, dimentica prima il nome dei figli, poi quello degli oggetti, infine il nome del suo popolo. Egli perde la sua identità, cioè la consapevolezza del suo proprio essere.
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In Italia per un venticinquennio almeno (dai primissimi anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta) c´è stata, per esempio, una doverosa attenzione e sottolineatura ufficiale della ricorrenza del 25 aprile, anniversario della Liberazione, e della necessità di perpetuare la memoria dei più grandi principi e ideali che ispirarono la Resistenza contro il nazifascismo.
Poi è cominciato una sorta di balletto (pardon, dibattito) politico che ha messo tutti in un grande calderone: fascisti e antifascisti, difensori della dittatura e martiri della Resistenza. Così, in questo clima di ´amnesia´ nazionale, si giunse all´anno Duemila, quando fu istituita in Italia la «Giornata della Memoria», con prevalente, però, e quasi esclusivo interesse per l´Olocausto e lo sterminio del popolo ebraico.
Ma, nonostante l´endemica e ormai ineluttabile esistenza nel nostro Paese (dalle amministrazioni locali alle istituzioni regionali e a quelle nazionali) di una classe sedicente ´politica´ affetta in troppo larga misura da avidità di potere, arroganza, ignoranza e predisposizione a compromessi di ogni sorta, ci sono ancora, sparsi qua e là, dalle città metropolitane ai centri urbani più piccoli, dignitosi «guardiani della memoria».
Di fronte a un sistema politico e socio-economico divenuto ormai novello e moderno ´Grande Fratello´, grande manipolatore del passato oltre che maestro in quella che oggi si ama definire «post-verità» e in passato più semplicemente "menzogna, inganno", questi "guardiani" garantiscono la tenace persistenza della memoria, il ricordo cioè di quel passato più e meno recente senza il quale il presente risulta incomprensibile e come sospeso nel vuoto temporale.
Uno di questi è Stefano Pepi.
Nell´Arma dei Carabinieri da circa vent´anni il giovane Stefano Pepi, appassionato ricercatore storico degli eventi della seconda guerra mondiale ricostruiti dal punto di osservazione della cittadina in cui vive, Acate (l´antica Biscari), ha esordito nel 2011 con un saggio storico in collaborazione con Domenico Anfora, «Obiettivo Biscari» edito da Mursia, sulle stragi commesse dall´esercito di invasione angloamericano nel luglio del ´43 proprio nel territorio fra il Dirillo e l´Ippari.
Adesso questo nuovo saggio, «Biscari fascista. Crimini politici e militari, odi, intrighi, guerre e opere nel ventennio».
Basandosi rigorosamente sui documenti d´archivio (l´Archivio di Stato di Ragusa, Siracusa e Catania, nonché quello comunale della sua cittadina) Pepi ricostruisce il ventennio fascista della sua Acate, dall´avvento del regime, passando per alcuni crimini politici perpetrati ai danni di cittadini antifascisti, fino alla fascistizzazione della scuola, dell´edilizia e degli slogan murali. Il tutto facendo nomi e cognomi dei principali esponenti della milizia fascista locale (gerarchi, centurioni, capimanipolo, etc.) e suscitando a volte, com´era prevedibile, l´inevitabile risentimento dei diretti discendenti. In nome della rigorosa verità storica, insomma, Stefano Pepi non ha voluto adeguarsi agli accomodamenti postbellici di cui si avvertiva nel 1944 un´eco anche a livello musicale: «cu´ ha avutu, ha avutu, ha avutu, / cu´ ha datu, ha datu, ha datu, / scurdammoce ´o passatu...».
Quindi il saggio passa a ricostruire - con una dovizia di particolari degna di un appassionato e attraverso le testimonianze di prima mano (diari e memorie) dei comandanti e degli ufficiali e sottufficiali americani che vi presero parte, nonché dei cittadini acatesi che vi si trovarono coinvolti da bambini – i momenti dello sbarco a Macconi e le varie fasi della battaglia di Acate. Il tutto con precisi riferimenti a battaglioni, brigate, etc. e agli ufficiali che condussero quelle operazioni militari dallo sbarco alla conquista definitiva del territorio.
Il saggio si conclude con un riferimento al processo di defascistizzazione, con il consueto patetico spettacolo di quanti, compromessi col regime, all´ultimo momento avevano buttato alle ortiche camicie nere e berretti e avevano atteso che passasse la furia degli eventi. D´altro canto, un detto siciliano molto antico, espressione di un popolo abituato per secoli a invasioni di eserciti stranieri, suona così: «Càlati jiuncu, ca passa la china».
C´è un capitolo che mi ha coinvolto in modo particolare. Si tratta della fucilazione avvenuta a Vittoria del podestà di Acate Giuseppe Mangano, del figlio e del fratello.
Attraverso le numerose testimonianze di quanti da bambini assistettero a quel tragico evento, Pepi ne ha ricostruito i drammatici momenti.
Il 10 luglio del ´43, il podestà, prima che gli americani che avevano già occupato Vittoria giungessero ad Acate, caricando sull´auto dei gioielli e in compagnia della moglie, del figlio diciassettenne, del fratello e di altre due donne di casa, si diresse verso Modica, dove viveva un altro suo fratello. Bloccati a un posto di blocco posto in via Cavour all´incrocio con la via Roma, gli uomini vennero fatti scendere e condotti assieme a una dozzina di soldati italiani fatti prigionieri in precedenza verso Piazza Italia. Poi, salendo a destra per la via Vicenza o la via Milano, il gruppo raggiunse contrada Terrepupi , dove avvenne la fucilazione di tutti i prigionieri, compreso il giovanissimo figlio del podestà. Stefano Pepi, col suo fiuto di carabiniere, ha individuato la casa colonica a ridosso dei binari ferroviari e ormai in totale abbandono (che anch´io ho visto), da cui alcuni testimoni assistettero non visti all´eccidio.
Il nostro giovane ricercatore, peraltro, sta completando un altro saggio dedicato proprio a Vittoria: il ventennio fascista, la militarizzazione tedesca della città, lo sbarco americano, gli eventi, gli uomini, i protagonisti e le vittime. Gli auguriamo buon lavoro.
FRANCESCO EREDDIA