" TEATRALITÀ DELLA MORTE NELLA SICILIA SPAGNOLA " del prof. Francesco Ereddia

"La sopra detta spesa per l´essequie del Almirante Signor Nostro, che sia in gloria, si feci per ordini et parere dello Signor Contatore Augustino Grimaldi et Andrea Valseca, et cossì lo dechiaramo et sottoscrivemo il detto Andrea Valseca, come persona che vi intervenne, et io don Juseppe Grimaldi, a nome de detto Augustino mio padre, che sia in gloria, et come contatore in suo loco. Et cossì noi, li infrascripti lo sotto, laudamo et approvamo et a nome del Duca et Conte de questo stato, declarando deverseli far boni alli Signori Arrendatarij a soy conti.
Don Joseppe Grimaldi, Mastro Rationale - Andrea Valseca, Contatore".
E´ questa la formula giurata in ´volgare´ toscano apposta a una nota delle spese assai formale, fredda e concisa, registrata come "El gastado en las obsequias del Segnor Almirante" ("La spesa relativa alle esequie dell´Almirante"), dalla quale apprendiamo della morte del conte di Modica Ludovico II Enriquez Cabrera, avvenuta nel dicembre 1596. Il maestro razionale Giuseppe Grimaldi, figlio di Agostino, e il "contatore" Andrea Valseca sottoscrivevano e approvavano le spese anticipate in quella triste circostanza dagli "arrendatari" (che gestivano in appalto l´amministrazione della contea) e le versavano nell´avere della contabilità di quelli. Per una capricciosa coincidenza del destino don Agostino Grimaldi era uscito da questa vita pochi giorni dopo la morte del conte e in questo modo singolare aveva concluso il suo pluridecennale, fedele e onorato servizio di "mastro razionale" della contea di Modica.
Quella semplice nota di spese, pur nella sua arida e fredda contabilità, se letta attentamente e tra le righe, ci dice parecchie cose interessanti non solo su aspetti quotidiani della vita della contea, ma anche sull´atmosfera culturale e sugli atteggiamenti mentali degli uomini di quell´età.
In primo luogo, notiamo così, en passant, che la lingua in cui è scritto il documento è il castigliano, e dunque si tratta della trascrizione sul registro ufficiale della cancelleria della Contea di una nota ufficiale inviata a Madrid, città di residenza dei conti Enriquez Cabrera.
Su un totale di onze 220 e tarì 17 questa nota ci dice che ben 161 onze e 26 tarì (pari al 70% circa dell´importo totale) erano state spese "por 60 cannas [la canna equivaleva a m. 2,064] de raxa negra comprada de Bartholomeo Vilar catalan pro las gramallas". Erano stati acquistati, presso un commerciante spagnolo, più di 100 metri di raso nero per abiti e manti da indossare da uomini e donne in segno di lutto.
Altre 20 onze e 27 tarì erano stati spesi "por 16 cannas y 2´ de media raxa negra que se compromas para gramallas de los porteros y hombres que sirvieron en la yglesia": una trentina di metri di raso nero di qualità più bassa ("de media raxa negra") erano stati acquistati presso un altro commerciante spagnolo ("Miguel Riera") per gli abiti da lutto degli uomini ("hombres") che svolsero il loro servizio davanti al portale ("porteros") e all´interno della chiesa. C´erano, dunque, a Modica e nelle altre "terre" della contea commercianti di tessuti spagnoli, oltre naturalmente ai "pannieri" locali discendenti per lo più da ebrei convertiti, molto avviati da secoli in quella specifica attività commerciale. In questo caso, nella circostanza cioè di un acquisto di stoffe destinate a una solennità funebre che riguardava direttamente i Conti, si sarà ritenuto più opportuno privilegiare i commercianti catalani.
Infine, non è specificata nel documento la chiesa in cui si erano svolte quelle esequie: si potrebbe pensare a quello che è oggi il duomo di S. Giorgio, il cui nucleo più antico era stato edificato nella parte alta di Modica ancor prima dei Cabrera, e cioè al tempo dei Chiaramonte, ma nulla esclude che potrebbe anche trattarsi della chiesa di S. Pietro, costruita ab antiquo nella parte più bassa della città e restaurata ai primi del Cinquecento.
Altre 27 onze e 15 tarì erano stati spesi "por un quintal y media de cera roxa comprada de Mario di Grana a 5 tarì el rotolo" (il rotolo equivaleva a kg. 0,79342). In questa circostanza, per l´acquisto cioè di un quintale e mezzo di cera rossa con cui produrre i ceroni accesi all´interno della chiesa durante la funzione funebre, era stato preferito un artigiano locale ("Mario di Grana"). Onze 6 e 13 tarì erano stati liquidati a "don Liberante, catalano, para pagar los sacrestanos que toccaron las campanas la noche y dia de las obsequias". Per tutta la notte e il giorno delle esequie erano stati garantiti i rintocchi funebri a intervalli regolari: data l´entità della somma, dobbiamo pensare che a quell´ufficio funebre erano state chiamate tutte le chiese della contea, impegnando in un lavoro straordinario i sagrestani di ciascuna di esse
Minori somme, intorno ad 1 onza o giù di lì, erano state versate al carpentiere mastro Dezio per costruire il catafalco ("por hazer el thalamo"), e a tre "piangenti" provenienti da Scicli, venute a cantare le loro nenie funebri nel giorno delle esequie (dovevano essere particolarmente brave se erano state fatte venire appositamente da fuori e non ci si era accontentati di quelle del posto). Il termine spagnolo usato nel testo con una grafia leggermente sicilianizzata è "chuscias", derivante molto probabilmente dal verbo "chuschar", "tirare i capelli". Queste "piangenti" erano eredi di un´antichissima tradizione funeraria già presente nei poemi omerici (si pensi al pianto di Achille e delle donne per la morte di Patroclo, nel XXIII dell´Iliade) e assai diffusa in tutta l´area mediterranea.
Stessa cifra di un´onza, infine, per la confezione ("por hechura") di tre manti neri, per i castellani di Modica, Scicli e Monterosso.
***
Possono cogliersi in quella lista contabile, in filigrana, lo spaccato di un´epoca e i segni di un costume scandito e caratterizzato da inconfondibili e suggestivi colori, suoni, odori.
Intanto ricordiamo che si trattava di esequie commemorative, che si svolgevano a centinaia di miglia di distanza da quella Madrid in cui avevano avuto luogo i funerali veri e propri. Eppure qui nella contea, in questo estremo lembo meridionale del regno di Sicilia, veniva replicato con le movenze di un linguaggio quasi teatrale e fin nei minimi particolari tutto il cerimoniale funebre. Era stato eretto un catafalco ("thalamo"), le campane avevano suonato a morto una notte e un giorno, un gruppo di "piangenti" aveva elevato le sue cantilene strazianti durante la funzione liturgica, i sensi dei partecipanti erano stati attratti dal contrasto tra il lugubre nero degli abiti e dei manti e il rosso dei ceri, che accesi avevano inebriato, in una con il fumo e il profumo dell´incenso, gli animi degli astanti.
Un cronista palermitano dell´epoca così descriveva le usanze funebri dominanti in Sicilia:
"V´era l´antichissimo costume di chiamarsi alcune donne, per lo più vecchie, le quali particolarmente venian prezzolate a piangere i morti. [...] Appena morto qualche capo di famiglia, o altro stretto parente, era un orrore il vedere gittati giù rovinosamente dalle finestre e dai balconi tutti i vasi delle piante e de´ fiori; sparate le camere delle buone suppellettili e vestite di panni negri; ricoperti a bruno i cocchi, e i servitori con lunghe gramaglie; e il mirar similmente le persone e maggiormente le vedove ritirate in un cantone della stanza del defunto, presenti al medesimo con le più strette congiunte, tutte ravvolte in lugubri cioppe e manti, contendere a gara chi di loro potesse meglio e più presto deporre nelle mani, nel petto e ne´ piedi del cadavere le ciocche de´ capelli, che miseramente si stracciavano in quello dolorosissimo corrotto".
In quell´età, infatti, la visione del mondo s´incupisce, si fanno più netti il senso della drammaticità del vivere e il conflitto interiore morale ed esistenziale. Insistente e ossessivo è nella poesia, sia in lingua che in dialetto, il ripetersi di temi esistenziali quali la fragilità della vita umana – una vita sentita come sogno o finzione, e dunque ´teatro´ -, la morte incombente sull´uomo, la caducità dei piaceri terreni. La meditazione sulla morte era ricorrente nell´uomo di quel tempo: si assisteva morbosamente allo spettacolo delle frequenti esecuzioni capitali e lo spettacolo macabro dei cadaveri mummificati, esposti nelle catacombe di tanti conventi siciliani, sottolineava la convivenza quotidiana dell´uomo con la morte.
E aggiungiamo un´altra testimonianza, più incentrata sul ruolo delle ´piangenti´, dovuta a uno studioso ibleo delle tradizioni popolari, Serafino Amabile Guastella (1819-1899) :
"All´alba, a mezzogiorno e al tramonto del sole, le parenti e le vicine più intime, che sono invitate all´uopo o s´invitano da loro stesse, durante i tre giorni del lutto sparanu li vuci, cioè cacciano all´improvviso urli così immani e accentuati a tale espressione di strazio, da scuotere per raccapriccio; e fra urlo e urlo, la parente più prossima va ripetendo le virtù del defunto. Quando finalmente perde la voce per la tensione soverchia, prega chi le sta più vicina a seguitare invece di lei; e questa non se lo fa dire due volte, finché anch´essa affiocata dia il cambio ad un´altra".
La nenia funebre era chiamata in dialetto "rèpitu" e "repitari" era detto il lamentarsi di quelle donne (chiamate in dialetto appunto "reputatrici"), termine che deriva probabilmente dal latino "repetere", nel senso di "replicare, ripetere, ridire".
Diamo qui un piccolo esempio di nenia funebre, avvertendo che veniva intonata in maniera ritmica con una donna che dava l´avvio e un´altra che rispondeva e che ogni passaggio era accompagnato e ritmato dal battito delle mani e del pugno chiuso battuto sul petto:
"Dunni vinni sta nèvula? / Vinni di l´autu mari: / trasìu di la finestra, / / mi ruppi lu spicchiali! / Lu spicchiali è me´ maritu,/ beddu, bonu e cumpìtu. // Chianciti, patri! ripitati, figghi! / vistitivi di niuri gramagghiazzi! / Fineru, ohimè, li gioj e li sgattigghi, / e fineru li spranzi e li sullazzi! ".
Fra le urla, i sospiri, le tirate dei capelli, le percosse al petto e i canti salmodianti delle "piangenti" e di tutti i parenti del defunto, il momento individuale della morte e del dolore veniva sottoposto a una sorta di ´controllo sociale´ e superato in maniera collettiva - e dunque rituale e ´teatrale´ - dall´intera comunità del villaggio o dal quartiere di una città.
FRANCESCO EREDDIA
Don Joseppe Grimaldi, Mastro Rationale - Andrea Valseca, Contatore".
E´ questa la formula giurata in ´volgare´ toscano apposta a una nota delle spese assai formale, fredda e concisa, registrata come "El gastado en las obsequias del Segnor Almirante" ("La spesa relativa alle esequie dell´Almirante"), dalla quale apprendiamo della morte del conte di Modica Ludovico II Enriquez Cabrera, avvenuta nel dicembre 1596. Il maestro razionale Giuseppe Grimaldi, figlio di Agostino, e il "contatore" Andrea Valseca sottoscrivevano e approvavano le spese anticipate in quella triste circostanza dagli "arrendatari" (che gestivano in appalto l´amministrazione della contea) e le versavano nell´avere della contabilità di quelli. Per una capricciosa coincidenza del destino don Agostino Grimaldi era uscito da questa vita pochi giorni dopo la morte del conte e in questo modo singolare aveva concluso il suo pluridecennale, fedele e onorato servizio di "mastro razionale" della contea di Modica.
Quella semplice nota di spese, pur nella sua arida e fredda contabilità, se letta attentamente e tra le righe, ci dice parecchie cose interessanti non solo su aspetti quotidiani della vita della contea, ma anche sull´atmosfera culturale e sugli atteggiamenti mentali degli uomini di quell´età.
In primo luogo, notiamo così, en passant, che la lingua in cui è scritto il documento è il castigliano, e dunque si tratta della trascrizione sul registro ufficiale della cancelleria della Contea di una nota ufficiale inviata a Madrid, città di residenza dei conti Enriquez Cabrera.
Su un totale di onze 220 e tarì 17 questa nota ci dice che ben 161 onze e 26 tarì (pari al 70% circa dell´importo totale) erano state spese "por 60 cannas [la canna equivaleva a m. 2,064] de raxa negra comprada de Bartholomeo Vilar catalan pro las gramallas". Erano stati acquistati, presso un commerciante spagnolo, più di 100 metri di raso nero per abiti e manti da indossare da uomini e donne in segno di lutto.
Altre 20 onze e 27 tarì erano stati spesi "por 16 cannas y 2´ de media raxa negra que se compromas para gramallas de los porteros y hombres que sirvieron en la yglesia": una trentina di metri di raso nero di qualità più bassa ("de media raxa negra") erano stati acquistati presso un altro commerciante spagnolo ("Miguel Riera") per gli abiti da lutto degli uomini ("hombres") che svolsero il loro servizio davanti al portale ("porteros") e all´interno della chiesa. C´erano, dunque, a Modica e nelle altre "terre" della contea commercianti di tessuti spagnoli, oltre naturalmente ai "pannieri" locali discendenti per lo più da ebrei convertiti, molto avviati da secoli in quella specifica attività commerciale. In questo caso, nella circostanza cioè di un acquisto di stoffe destinate a una solennità funebre che riguardava direttamente i Conti, si sarà ritenuto più opportuno privilegiare i commercianti catalani.
Infine, non è specificata nel documento la chiesa in cui si erano svolte quelle esequie: si potrebbe pensare a quello che è oggi il duomo di S. Giorgio, il cui nucleo più antico era stato edificato nella parte alta di Modica ancor prima dei Cabrera, e cioè al tempo dei Chiaramonte, ma nulla esclude che potrebbe anche trattarsi della chiesa di S. Pietro, costruita ab antiquo nella parte più bassa della città e restaurata ai primi del Cinquecento.
Altre 27 onze e 15 tarì erano stati spesi "por un quintal y media de cera roxa comprada de Mario di Grana a 5 tarì el rotolo" (il rotolo equivaleva a kg. 0,79342). In questa circostanza, per l´acquisto cioè di un quintale e mezzo di cera rossa con cui produrre i ceroni accesi all´interno della chiesa durante la funzione funebre, era stato preferito un artigiano locale ("Mario di Grana"). Onze 6 e 13 tarì erano stati liquidati a "don Liberante, catalano, para pagar los sacrestanos que toccaron las campanas la noche y dia de las obsequias". Per tutta la notte e il giorno delle esequie erano stati garantiti i rintocchi funebri a intervalli regolari: data l´entità della somma, dobbiamo pensare che a quell´ufficio funebre erano state chiamate tutte le chiese della contea, impegnando in un lavoro straordinario i sagrestani di ciascuna di esse
Minori somme, intorno ad 1 onza o giù di lì, erano state versate al carpentiere mastro Dezio per costruire il catafalco ("por hazer el thalamo"), e a tre "piangenti" provenienti da Scicli, venute a cantare le loro nenie funebri nel giorno delle esequie (dovevano essere particolarmente brave se erano state fatte venire appositamente da fuori e non ci si era accontentati di quelle del posto). Il termine spagnolo usato nel testo con una grafia leggermente sicilianizzata è "chuscias", derivante molto probabilmente dal verbo "chuschar", "tirare i capelli". Queste "piangenti" erano eredi di un´antichissima tradizione funeraria già presente nei poemi omerici (si pensi al pianto di Achille e delle donne per la morte di Patroclo, nel XXIII dell´Iliade) e assai diffusa in tutta l´area mediterranea.
Stessa cifra di un´onza, infine, per la confezione ("por hechura") di tre manti neri, per i castellani di Modica, Scicli e Monterosso.
***
Possono cogliersi in quella lista contabile, in filigrana, lo spaccato di un´epoca e i segni di un costume scandito e caratterizzato da inconfondibili e suggestivi colori, suoni, odori.
Intanto ricordiamo che si trattava di esequie commemorative, che si svolgevano a centinaia di miglia di distanza da quella Madrid in cui avevano avuto luogo i funerali veri e propri. Eppure qui nella contea, in questo estremo lembo meridionale del regno di Sicilia, veniva replicato con le movenze di un linguaggio quasi teatrale e fin nei minimi particolari tutto il cerimoniale funebre. Era stato eretto un catafalco ("thalamo"), le campane avevano suonato a morto una notte e un giorno, un gruppo di "piangenti" aveva elevato le sue cantilene strazianti durante la funzione liturgica, i sensi dei partecipanti erano stati attratti dal contrasto tra il lugubre nero degli abiti e dei manti e il rosso dei ceri, che accesi avevano inebriato, in una con il fumo e il profumo dell´incenso, gli animi degli astanti.
Un cronista palermitano dell´epoca così descriveva le usanze funebri dominanti in Sicilia:
"V´era l´antichissimo costume di chiamarsi alcune donne, per lo più vecchie, le quali particolarmente venian prezzolate a piangere i morti. [...] Appena morto qualche capo di famiglia, o altro stretto parente, era un orrore il vedere gittati giù rovinosamente dalle finestre e dai balconi tutti i vasi delle piante e de´ fiori; sparate le camere delle buone suppellettili e vestite di panni negri; ricoperti a bruno i cocchi, e i servitori con lunghe gramaglie; e il mirar similmente le persone e maggiormente le vedove ritirate in un cantone della stanza del defunto, presenti al medesimo con le più strette congiunte, tutte ravvolte in lugubri cioppe e manti, contendere a gara chi di loro potesse meglio e più presto deporre nelle mani, nel petto e ne´ piedi del cadavere le ciocche de´ capelli, che miseramente si stracciavano in quello dolorosissimo corrotto".
In quell´età, infatti, la visione del mondo s´incupisce, si fanno più netti il senso della drammaticità del vivere e il conflitto interiore morale ed esistenziale. Insistente e ossessivo è nella poesia, sia in lingua che in dialetto, il ripetersi di temi esistenziali quali la fragilità della vita umana – una vita sentita come sogno o finzione, e dunque ´teatro´ -, la morte incombente sull´uomo, la caducità dei piaceri terreni. La meditazione sulla morte era ricorrente nell´uomo di quel tempo: si assisteva morbosamente allo spettacolo delle frequenti esecuzioni capitali e lo spettacolo macabro dei cadaveri mummificati, esposti nelle catacombe di tanti conventi siciliani, sottolineava la convivenza quotidiana dell´uomo con la morte.
E aggiungiamo un´altra testimonianza, più incentrata sul ruolo delle ´piangenti´, dovuta a uno studioso ibleo delle tradizioni popolari, Serafino Amabile Guastella (1819-1899) :
"All´alba, a mezzogiorno e al tramonto del sole, le parenti e le vicine più intime, che sono invitate all´uopo o s´invitano da loro stesse, durante i tre giorni del lutto sparanu li vuci, cioè cacciano all´improvviso urli così immani e accentuati a tale espressione di strazio, da scuotere per raccapriccio; e fra urlo e urlo, la parente più prossima va ripetendo le virtù del defunto. Quando finalmente perde la voce per la tensione soverchia, prega chi le sta più vicina a seguitare invece di lei; e questa non se lo fa dire due volte, finché anch´essa affiocata dia il cambio ad un´altra".
La nenia funebre era chiamata in dialetto "rèpitu" e "repitari" era detto il lamentarsi di quelle donne (chiamate in dialetto appunto "reputatrici"), termine che deriva probabilmente dal latino "repetere", nel senso di "replicare, ripetere, ridire".
Diamo qui un piccolo esempio di nenia funebre, avvertendo che veniva intonata in maniera ritmica con una donna che dava l´avvio e un´altra che rispondeva e che ogni passaggio era accompagnato e ritmato dal battito delle mani e del pugno chiuso battuto sul petto:
"Dunni vinni sta nèvula? / Vinni di l´autu mari: / trasìu di la finestra, / / mi ruppi lu spicchiali! / Lu spicchiali è me´ maritu,/ beddu, bonu e cumpìtu. // Chianciti, patri! ripitati, figghi! / vistitivi di niuri gramagghiazzi! / Fineru, ohimè, li gioj e li sgattigghi, / e fineru li spranzi e li sullazzi! ".
Fra le urla, i sospiri, le tirate dei capelli, le percosse al petto e i canti salmodianti delle "piangenti" e di tutti i parenti del defunto, il momento individuale della morte e del dolore veniva sottoposto a una sorta di ´controllo sociale´ e superato in maniera collettiva - e dunque rituale e ´teatrale´ - dall´intera comunità del villaggio o dal quartiere di una città.
FRANCESCO EREDDIA