" 'A BUMMULA " di Salvatore Battaglia
A Bummula, un oggetto antico come la storia della nostra Terra
A Bummula
Pensu a quantu aiu statu maniatu e furriatu ri menzu munnu, e a quanta acqua frisca a passatu ri stu me
mussu tunnu, assai sunu chiddi ca aiu fattu arricriari, ma prima di lu pani nun mauna scuddari. Pensu a
quanti carritteri, campagnoli e tanta genti, stanchi e surati, nta li iunnati di cauru punenti, s’ alippaunu nto
me mussu di crita e nta giru di tri sacunni ci tunnava la forza di la vita…
Oggi con il mio amico Gioele di Milano parleremo di un recipiente della tradizione ragusana che ha
attraversato i secoli: il bummulu, o quartara.
A Bummula e u Baruni…
U baruni che abitava nella mia Ragusa ibla… si era alzato presto quella mattina del 5 agosto del 1957. non
riusciva a dormire. Forse il caldo afoso del sole del sud di agosto, che toglie il fiato e rende tutto
appiccicoso, forse uno strano presentimento. Ma, a causa della sveglia non voluta, il barone era di cattivo
umore, quasi ncazzusu. Chiamò le serve per farsi vestire, insultandole senza un motivo apparente, un po’
come le donne nel periodo del premestruo.
Ma gli insulti non calmarono quell’ inquietudine, quel nervosismo che lo rodeva da dentro.
Vestito di tutto punto, si affacciò sul balcone del palazzo nobiliare di famiglia: palazzo che aveva visto
nascere suo padre, suo nonno e prima ancora una lunga schiera di antenati che si perdevano nel tempo. Da
lì riusciva a vedere tutte le casette dei suoi paesani, aggrappate disperatamente le une sulle altre, abitate
prevalentemente da coloni, contadini, mezzadri, gente a cui la sua famiglia dava lavoro da secoli.
Guardando oltre quelle casette arroccate le une sulle altre, dello stesso colore della terra, si vedevano delle
terre piantate a olivi, giardini di arance con i loro frutti dorati, terre che si perdevano a vista d’occhio. Il
barone rifletteva su quanti matrimoni di convenienza erano stati fatti per poter tenere integra, o magari
aumentare, la roba, la proprietà terriera, i soldi, che ora erano arrivati a lui; a quanti figli secondogeniti
erano stati mandati a studiare in convento per farsi frati o preti proprio per evitare ulteriori divisioni di
beni.
Pensava anche a molti suoi antenati che avevano dato lustro al paese con i loro contribuiti alle scienze, alle
arti, come - difatti - testimoniavano i vari busti disseminati nel paese e i vari nomi delle vie.
Estendendo la visione oltre il suo piccolo quartiere, notava che tutto lo scibile umano era stato scoperto e
generato da gente della sua risma, gente aristocratica, nobili signori, dal sangue blu.
Don e Donna, gente che aveva studiato nelle migliori scuole. Non gente qualsiasi, gente del popolo, morti di
fame, straccioni puzzolenti, abituati ad avere a che fare più con le bestie che con le persone. Eppure,
nonostante questo ordine naturale dei fatti, rafforzato dall’ evidenza delle cose, mantenuto per secoli, il
suo mondo sembrava destinato a scomparire.
Il popolo – che agli occhi del barone appariva come la plebe - invece di essere riconoscente di tutto quello
che aveva ricevuto e che continuava a ricevere (in particolare, lavoro, scienza ed arte), ora pretendeva che
la gente come lui dovesse scomparire: a parer loro, infatti, erano tutti uguali!! Non deve stupire il lettore
ciò che in realtà affermava in risposta il Barone: “Ma come fa un guardiano di porci ad essere uguale ad un
conte? Egli, non potrà mai essere uguale, sia per educazione sia per cultura, ma soprattutto per
intelligenza”.
La piazza degli Archi era divisa: da un lato i “plebei” gridavano che la terra apparteneva a chi la lavora,
dimenticando del tutto il sangue ed il sudore che la famiglia del Barone aveva dovuto spargere per
possedere quella terra. Dall’altro lato Il Barone rimaneva fermo nelle sue convinzioni: il voto di un avvocato
non ha, e non potrà mai avere, lo stesso peso di quello di un contadino. Eppure, quest’ultimo si rendeva
conto che tutto ciò era ormai inevitabile, e se ne amareggiava. “Chissà come degenererà il mondo”,
pensava il Barone. E anche nel suo piccolo quartiere, Ibla 1 , che pareva aggrappato alla collina, cominciavano
a vedersi le prime nuove case. Oltre a quelle casette decadenti, apparivano pian piano le prime abitazioni a
più piani; in particolar modo, erano le case dei cosiddetti “nuovi arricchiti”, create da quest’ultimi ai tempi
in cui sostenevano che tutti erano uguali, nessuno escluso, neanche il Barone.
Giorno dopo giorno, il Barone vedeva quei piccoli bottegai, dai modi rozzi ed interessati al vile denaro,
arricchirsi sempre più, mentre lui cominciava a perdere terre, una dietro l’altra.
Tutto questo pensava u baruni, e lo pensava guardando il brulichio di persone che passavano sotto il suo
balcone… ma inaspettatamente Vanninu, u cammareri ro baruni, ri luntanu… (ma Giovanni, il cameriere del
barone, da lontano…) esclamò… Voscenza voli viviri l’acqua frisca ra Bummula? (Vostra eccellenza vuole
bere l’acqua fresca dalla Bummula?). Allora il barone si rilassò… pensando che ancora avrebbe goduto di
quei privilegi per altri lustri… E così si sbottonò il panciotto, si allisciò i capelli unti e rientrò in casa, diretto
all’armadio che custodiva i fucili da caccia. Prese la doppietta, in quanto pensò che la risposta potesse
essere solo una. Scoreggiò sonoramente e si avviò a cacciare… per le sue tenute, godendo del presente
senza pensare troppo al futuro incombente…
La storia del bummulu, o quartara,
È una storia che attraversa l’intera tradizione ragusana e siciliana. Anzi, la tipica anfora a due manici, oggi
decorata, risale alla civiltà greca. L’etimologia del suo nome, infatti, è greca. Bombylios o bombyle, questi
erano nomi onomatopeici, che di fatto riproducevano esattamente il suono del liquido, spesso vino che
veniva versato al suo interno.
Da dove viene il bummulu, la storia
Il recipiente è fatto da un impasto di terracotta e sale, ed ha la capacità di mantenere la temperatura
ottimale del liquido che si versa: acqua, vino o olio. La sua grandezza è pari a 55 cm, mentre la capienza
della pancia del bummulu varia dai 16 ai 20 litri. Poi c’è una versione, diciamo così, tascabile che può
contenere circa 8 litri. Come quasi tutti gli elementi della tradizione siciliana, esso veniva utilizzato negli
ambienti più umili. I contadini o i pastori, oppure coloro che abitavano lontano da fonti d’acqua. Infatti, col
bummulu l’acqua si prendeva alla fonte e si riportava a casa, a temperatura costante. Gli abitanti di alcune
zone della nostra Etna erano abituati all’utilizzo delle quartare, soprattutto per il trasporto del vino.
1 Ibla, tanto tempo fa, era un paese a se stante, solo successivamente venne accorpato alla città nuova,
formandosi in tal modo una sola identità: Ragusa.
All’inizio il bummulu non veniva decorato, poi man mano venne sostituto da recipienti in lamiera, perdendo
la sua funzione. Inizia, però, una nuova vita per il bummulu. Diventa decisamente più piccolo ed inizia ad
essere decorato con chiari riferimenti alla nostra terra. Scene di vita bucolica o festosa, cactus, mare e
limoni, etc.
Da recipiente a strumento musicale
Sembrerebbe che la storia del bummulu fosse finita qui, ma non è così! Infatti, il bummulu non ha solo il
compito di trasportare liquidi. Esso, da secoli ormai, viene utilizzato come strumento musicale. Non vi è mai
capitato di essere in qualche ristorante catanese e, mentre sorseggiate il vostro vino, entra un gruppo di
suonatori tipici? Avete mai notato che spesso uno di loro suona, come se fosse un flauto, una specie di
anfora colorata? Bene quello è il bummulu. La quartara deve essere vuota per poterla suonare. Si soffia
dalla sua bocca e il suono che ne esce è cupo.
Questo aspetto del recipiente nostrano è quello più legato alla tradizione. Si narra, infatti, che molti pastori
delle montagne della nostra zona incantassero le ninfe suonando questo strumento, una volta finito di bere
il vino all’interno.
U purpu co bummulu, ricetta nostrana
L’ultima chicca del poliedrico recipiente nostrano riguarda la cucina catanese. Chi di voi ha mai cucinato il
purpu co bummulu? Infatti, in questo caso serve proprio per cucinare al suo interno il polpo. Per i più
curiosi di seguito la ricetta.
Bisogna pulire bene i polpi, inserirli all’interno del bummulu, con pomodori pelati, vino bianco, sale, olio e
peperoncino. Dopo aver tappato la quartara, scuoterla per amalgamare gli ingredienti e disporla sul fondo
di un forno a legna, per circa 90 minuti. E poi godetevi il vostro polpo, una prelibatezza catanese doc!
Chissà quanti di voi possiedono nel proprio salotto una piccola quartara decorata. Però, non tutti
conoscono realmente la storia e le potenzialità del bummulu. Un recipiente che nei secoli ha avuto la forza
di reinventarsi per rimanere eterno. La bellezza delle cose nostrane.
Presidente Accademia delle Prefi
Salvatore Battaglia
A Bummula
Pensu a quantu aiu statu maniatu e furriatu ri menzu munnu, e a quanta acqua frisca a passatu ri stu me
mussu tunnu, assai sunu chiddi ca aiu fattu arricriari, ma prima di lu pani nun mauna scuddari. Pensu a
quanti carritteri, campagnoli e tanta genti, stanchi e surati, nta li iunnati di cauru punenti, s’ alippaunu nto
me mussu di crita e nta giru di tri sacunni ci tunnava la forza di la vita…
Oggi con il mio amico Gioele di Milano parleremo di un recipiente della tradizione ragusana che ha
attraversato i secoli: il bummulu, o quartara.
A Bummula e u Baruni…
U baruni che abitava nella mia Ragusa ibla… si era alzato presto quella mattina del 5 agosto del 1957. non
riusciva a dormire. Forse il caldo afoso del sole del sud di agosto, che toglie il fiato e rende tutto
appiccicoso, forse uno strano presentimento. Ma, a causa della sveglia non voluta, il barone era di cattivo
umore, quasi ncazzusu. Chiamò le serve per farsi vestire, insultandole senza un motivo apparente, un po’
come le donne nel periodo del premestruo.
Ma gli insulti non calmarono quell’ inquietudine, quel nervosismo che lo rodeva da dentro.
Vestito di tutto punto, si affacciò sul balcone del palazzo nobiliare di famiglia: palazzo che aveva visto
nascere suo padre, suo nonno e prima ancora una lunga schiera di antenati che si perdevano nel tempo. Da
lì riusciva a vedere tutte le casette dei suoi paesani, aggrappate disperatamente le une sulle altre, abitate
prevalentemente da coloni, contadini, mezzadri, gente a cui la sua famiglia dava lavoro da secoli.
Guardando oltre quelle casette arroccate le une sulle altre, dello stesso colore della terra, si vedevano delle
terre piantate a olivi, giardini di arance con i loro frutti dorati, terre che si perdevano a vista d’occhio. Il
barone rifletteva su quanti matrimoni di convenienza erano stati fatti per poter tenere integra, o magari
aumentare, la roba, la proprietà terriera, i soldi, che ora erano arrivati a lui; a quanti figli secondogeniti
erano stati mandati a studiare in convento per farsi frati o preti proprio per evitare ulteriori divisioni di
beni.
Pensava anche a molti suoi antenati che avevano dato lustro al paese con i loro contribuiti alle scienze, alle
arti, come - difatti - testimoniavano i vari busti disseminati nel paese e i vari nomi delle vie.
Estendendo la visione oltre il suo piccolo quartiere, notava che tutto lo scibile umano era stato scoperto e
generato da gente della sua risma, gente aristocratica, nobili signori, dal sangue blu.
Don e Donna, gente che aveva studiato nelle migliori scuole. Non gente qualsiasi, gente del popolo, morti di
fame, straccioni puzzolenti, abituati ad avere a che fare più con le bestie che con le persone. Eppure,
nonostante questo ordine naturale dei fatti, rafforzato dall’ evidenza delle cose, mantenuto per secoli, il
suo mondo sembrava destinato a scomparire.
Il popolo – che agli occhi del barone appariva come la plebe - invece di essere riconoscente di tutto quello
che aveva ricevuto e che continuava a ricevere (in particolare, lavoro, scienza ed arte), ora pretendeva che
la gente come lui dovesse scomparire: a parer loro, infatti, erano tutti uguali!! Non deve stupire il lettore
ciò che in realtà affermava in risposta il Barone: “Ma come fa un guardiano di porci ad essere uguale ad un
conte? Egli, non potrà mai essere uguale, sia per educazione sia per cultura, ma soprattutto per
intelligenza”.
La piazza degli Archi era divisa: da un lato i “plebei” gridavano che la terra apparteneva a chi la lavora,
dimenticando del tutto il sangue ed il sudore che la famiglia del Barone aveva dovuto spargere per
possedere quella terra. Dall’altro lato Il Barone rimaneva fermo nelle sue convinzioni: il voto di un avvocato
non ha, e non potrà mai avere, lo stesso peso di quello di un contadino. Eppure, quest’ultimo si rendeva
conto che tutto ciò era ormai inevitabile, e se ne amareggiava. “Chissà come degenererà il mondo”,
pensava il Barone. E anche nel suo piccolo quartiere, Ibla 1 , che pareva aggrappato alla collina, cominciavano
a vedersi le prime nuove case. Oltre a quelle casette decadenti, apparivano pian piano le prime abitazioni a
più piani; in particolar modo, erano le case dei cosiddetti “nuovi arricchiti”, create da quest’ultimi ai tempi
in cui sostenevano che tutti erano uguali, nessuno escluso, neanche il Barone.
Giorno dopo giorno, il Barone vedeva quei piccoli bottegai, dai modi rozzi ed interessati al vile denaro,
arricchirsi sempre più, mentre lui cominciava a perdere terre, una dietro l’altra.
Tutto questo pensava u baruni, e lo pensava guardando il brulichio di persone che passavano sotto il suo
balcone… ma inaspettatamente Vanninu, u cammareri ro baruni, ri luntanu… (ma Giovanni, il cameriere del
barone, da lontano…) esclamò… Voscenza voli viviri l’acqua frisca ra Bummula? (Vostra eccellenza vuole
bere l’acqua fresca dalla Bummula?). Allora il barone si rilassò… pensando che ancora avrebbe goduto di
quei privilegi per altri lustri… E così si sbottonò il panciotto, si allisciò i capelli unti e rientrò in casa, diretto
all’armadio che custodiva i fucili da caccia. Prese la doppietta, in quanto pensò che la risposta potesse
essere solo una. Scoreggiò sonoramente e si avviò a cacciare… per le sue tenute, godendo del presente
senza pensare troppo al futuro incombente…
La storia del bummulu, o quartara,
È una storia che attraversa l’intera tradizione ragusana e siciliana. Anzi, la tipica anfora a due manici, oggi
decorata, risale alla civiltà greca. L’etimologia del suo nome, infatti, è greca. Bombylios o bombyle, questi
erano nomi onomatopeici, che di fatto riproducevano esattamente il suono del liquido, spesso vino che
veniva versato al suo interno.
Da dove viene il bummulu, la storia
Il recipiente è fatto da un impasto di terracotta e sale, ed ha la capacità di mantenere la temperatura
ottimale del liquido che si versa: acqua, vino o olio. La sua grandezza è pari a 55 cm, mentre la capienza
della pancia del bummulu varia dai 16 ai 20 litri. Poi c’è una versione, diciamo così, tascabile che può
contenere circa 8 litri. Come quasi tutti gli elementi della tradizione siciliana, esso veniva utilizzato negli
ambienti più umili. I contadini o i pastori, oppure coloro che abitavano lontano da fonti d’acqua. Infatti, col
bummulu l’acqua si prendeva alla fonte e si riportava a casa, a temperatura costante. Gli abitanti di alcune
zone della nostra Etna erano abituati all’utilizzo delle quartare, soprattutto per il trasporto del vino.
1 Ibla, tanto tempo fa, era un paese a se stante, solo successivamente venne accorpato alla città nuova,
formandosi in tal modo una sola identità: Ragusa.
All’inizio il bummulu non veniva decorato, poi man mano venne sostituto da recipienti in lamiera, perdendo
la sua funzione. Inizia, però, una nuova vita per il bummulu. Diventa decisamente più piccolo ed inizia ad
essere decorato con chiari riferimenti alla nostra terra. Scene di vita bucolica o festosa, cactus, mare e
limoni, etc.
Da recipiente a strumento musicale
Sembrerebbe che la storia del bummulu fosse finita qui, ma non è così! Infatti, il bummulu non ha solo il
compito di trasportare liquidi. Esso, da secoli ormai, viene utilizzato come strumento musicale. Non vi è mai
capitato di essere in qualche ristorante catanese e, mentre sorseggiate il vostro vino, entra un gruppo di
suonatori tipici? Avete mai notato che spesso uno di loro suona, come se fosse un flauto, una specie di
anfora colorata? Bene quello è il bummulu. La quartara deve essere vuota per poterla suonare. Si soffia
dalla sua bocca e il suono che ne esce è cupo.
Questo aspetto del recipiente nostrano è quello più legato alla tradizione. Si narra, infatti, che molti pastori
delle montagne della nostra zona incantassero le ninfe suonando questo strumento, una volta finito di bere
il vino all’interno.
U purpu co bummulu, ricetta nostrana
L’ultima chicca del poliedrico recipiente nostrano riguarda la cucina catanese. Chi di voi ha mai cucinato il
purpu co bummulu? Infatti, in questo caso serve proprio per cucinare al suo interno il polpo. Per i più
curiosi di seguito la ricetta.
Bisogna pulire bene i polpi, inserirli all’interno del bummulu, con pomodori pelati, vino bianco, sale, olio e
peperoncino. Dopo aver tappato la quartara, scuoterla per amalgamare gli ingredienti e disporla sul fondo
di un forno a legna, per circa 90 minuti. E poi godetevi il vostro polpo, una prelibatezza catanese doc!
Chissà quanti di voi possiedono nel proprio salotto una piccola quartara decorata. Però, non tutti
conoscono realmente la storia e le potenzialità del bummulu. Un recipiente che nei secoli ha avuto la forza
di reinventarsi per rimanere eterno. La bellezza delle cose nostrane.
Presidente Accademia delle Prefi
Salvatore Battaglia