«CHE I TRIBUTI SIENO PAGATI A MISURA DEGLI AVERI DI CIASCHEDUNO» DI FRANCESCO EREDDIA
Il 9 ottobre 1604 il viceré Lorenzo Suarez de Figueroa duca di Feria promulgava una “Prammatica”, cioè un decreto immediatamente esecutivo, a tutela della stabilità economica dei feudi. Tale Prammatica prendeva le mosse dalla precaria situazione finanziaria della contea di Modica, il più vasto e importante feudo della Sicilia.
Il viceré lamenta che «vengono a rovina e si accàbano famiglie nobilissime e principalissime del Regno» (il termine dialettale “accabarisi” o “accaparisi”, nel senso di “finire, esaurirsi”, deriva dallo spagnolo “acabàr” dello stesso significato) e trova come principale rimedio quello di proibire che i baroni potessero contrarre debiti a qualsiasi titolo dando come garanzia i feudi stessi.
«Trovò egli i nobili carichi di debiti, non ostante la Deputazione degli Stati eretta dal duca di Macqueda per liberarneli; e volendovi metter modo, cercò con diligenza d’onde mai nascesse che, malgrado i ripari dati, non potessero eglino risorgere dalla miseria e si trovassero più inviluppati di prima».
In effetti, il precedente viceré duca di Maqueda (1596-1601), volendo risollevare la situazione finanziaria dei nobili, quasi tutti pesantemente indebitati soprattutto per cattiva amministrazione e gestione delle loro rendite, aveva creato la cosiddetta “Deputazione degli Stati”, un organismo finanziario composto da funzionari di elevata professionalità e indiscussa onestà incaricati di amministrare i beni dei baroni e di estinguere i loro debiti. Ma questo organismo per varie ragioni non riuscì a operare in modo efficace, sicché le condizioni di progressivo indebitamento dei nobili permasero.
Ma il dissesto economico feudale non era un male che colpiva soltanto la contea di Modica: si trattava del fenomeno diffuso e generalizzato del declino inarrestabile, del tramonto anzi, della vecchia classe nobiliare, con i suoi latifondi che ne costituivano l’anima economica e le garantivano rendite parassitarie. Dunque, se le “famiglie nobilissime e principalissime del Regno” erano avviate alla rovina economica e all’estinzione, ciò non era dovuto soltanto all’amministrazione disonesta di “Baronie, feghi e Stati” né solamente al lusso eccessivo in cui i nobili vivevano,
«Alla fine del Cinquecento – afferma lo storico R. Villari - cominciarono a manifestarsi in Europa segni di recessione economica che successivamente, intorno al 1620, sfociarono in una crisi generale. La fase negativa si protrasse per alcuni decenni, oltre la metà del XVII secolo. Ristagno demografico, contrazione degli scambi commerciali, carestie, declino della produzione agricola e manifatturiera, accentuata instabilità dei prezzi furono fenomeni caratteristici di quel periodo».
A partire dal 1591 la carestia colpiva con cadenza annuale: nei primi del Seicento era tale la penuria di grano, che il presidente del Regno Marchese di Geraci emanava nel 1606 un’ordinanza con la quale si vietava rigorosamente ai nobili di portare polsini e colletti inamidati. Si sopravviveva ormai all’interno di quella che lo storico francese Le Roy Ladurie ha definito una vera e propria “little ice age” europea, una piccola èra glaciale che andò dal 1550 al 1700. Quel quindicennio di cattivi raccolti era il segno di un calo irreversibile in Sicilia della produzione granaria, mentre contemporaneamente crollava il prezzo internazionale del grano, per cui si profilava la fine imminente dell’importanza europea del grano siciliano.
Subendo una flessione la produttività agricola e la relativa rendita fondiaria, per il baronaggio restavano come fonte primaria e vitale di reddito i proventi delle imposte dirette e indirette, cioè le gabelle.
Quali erano le gabelle che i vassalli della contea di Modica, come peraltro tutti quelli dell’intera Sicilia, erano tenuti a pagare? Premesso che la maggior parte delle gabelle che ci accingiamo a elencare risalivano già al tempo di Bernardo Cabrera, le tre più importanti, in quanto assicuravano un gettito maggiore, erano: la “Cassia” o “Caxia”, che riguardava la compravendita di beni stabili o immobili (dovevano pagarla sia il venditore che il compratore) ed era pari a tarì 1 e grani 12 per ogni onza di valore di quei beni; la “Dogana” o “ Dohana”, un’imposta o dazio sulla commercializzazione dei prodotti locali (formaggi, canape, lino, lana, legumi, cera, pelli d’agnello, capretti e conigli, carrube, etc.); “l’Arco di cotone”, una tassa sulla quantità di cotone lavorato, che era così chiamata perché si usava un arco la cui corda tesa serviva per battere il cotone e separarlo dai semi.
Poi c’era la “gabella del vino”, relativa alla sua compravendita sia al dettaglio che all’ingrosso; quella della “carne”, sia sulla macellazione che sulla vendita (curiosamente ne erano esenti i caprini, e ciò Bernardo Cabrera aveva disposto in ossequio al proprio stemma, che come indica il cognome spagnolo aveva come simbolo una capra); della “barderìa”, balzello che gravava sui proprietari di cavalcature selvagge alle quali mettevano il capestro e la barda o sella senza arcioni; del “bardaggio”, tassa imposta a chi confezionava barde per equini; della “tinturìa”, tassa pagata annualmente dai tintori di stoffa; della “crivarìa”, pagata da chi fabbricava crivelli per il grano; degli “erbaggi”, che gravava sugli animali portati al pascolo; della “colta”, che consisteva in una percentuale del frumento prodotto o raccolto che ogni capofamiglia era tenuto a versare al conte; del “merco”, dazio imposto sulla marchiatura delle bestie destinate al macello; dei “vasi” o “vaxelli”, sulle arnie usate dagli allevatori di api e produttori di miele; della “buscaglia”, tassa da versare per ogni animale che trasportava la legna raccolta nei boschi del conte; la “baglìa”, una tassa per mantenere il “baiulo” o “baglìo”, l’impiegato che in ogni “università” sovrintendeva alla sorveglianza delle terre coltivate e a quella notturna dei centri abitati, nonché alla pulizia di strade, fontane e abbeveratoi; la “sciurta”, altra tassa per il mantenimento delle sentinelle notturne.
Non si può certo dire che i vassalli della contea fossero privi di una qualsiasi della miriade di tasse e balzelli previsti dall’iniquo sistema feudale. Ancora più iniquo, in quanto da molte di queste gabelle erano esenti o “franchi” tutti i nobili e molti professionisti (notai, avvocati, speziali, ecc.). Al punto che il nostro viceré duca di Feria, ben intuendo che i proventi delle gabelle erano le uniche entrate certe e consistenti dei magri bilanci baronali,
«volle anche riparare alla pessima ripartizione de’ pesi, che si faceano dalle Università del regno nell’imporre i dazj, e i donativi, che si pagavano al Re, per cui spesso accadea, che restavano aggravati i poveri, ed erano esenti o in tutto, o in parte dalla contribuzione i benestanti, e procurò di stabilirvi una uguaglianza, per cui i tributi fossero pagati a misura degli averi di ciascheduno».
Riuscì il duca di Feria a far sì che “i tributi fossero pagati a misura degli averi di ciascheduno”? Se così fosse stato, il suo costituirebbe l’unico esempio della civiltà occidentale moderna e contemporanea. E infatti così non fu:
«Per quanto però vi si fosse cooperato, pochissimo fu il frutto, che ne trassero i popoli; le cabale, ed i raggiri di coloro, che impongono le gabelle, i quali sogliono essere i più potenti, e i più comodi, ne faceano per lo più cadere tutto il peso sopra i meschini».
FRANCESCO EREDDIA
Il viceré lamenta che «vengono a rovina e si accàbano famiglie nobilissime e principalissime del Regno» (il termine dialettale “accabarisi” o “accaparisi”, nel senso di “finire, esaurirsi”, deriva dallo spagnolo “acabàr” dello stesso significato) e trova come principale rimedio quello di proibire che i baroni potessero contrarre debiti a qualsiasi titolo dando come garanzia i feudi stessi.
«Trovò egli i nobili carichi di debiti, non ostante la Deputazione degli Stati eretta dal duca di Macqueda per liberarneli; e volendovi metter modo, cercò con diligenza d’onde mai nascesse che, malgrado i ripari dati, non potessero eglino risorgere dalla miseria e si trovassero più inviluppati di prima».
In effetti, il precedente viceré duca di Maqueda (1596-1601), volendo risollevare la situazione finanziaria dei nobili, quasi tutti pesantemente indebitati soprattutto per cattiva amministrazione e gestione delle loro rendite, aveva creato la cosiddetta “Deputazione degli Stati”, un organismo finanziario composto da funzionari di elevata professionalità e indiscussa onestà incaricati di amministrare i beni dei baroni e di estinguere i loro debiti. Ma questo organismo per varie ragioni non riuscì a operare in modo efficace, sicché le condizioni di progressivo indebitamento dei nobili permasero.
Ma il dissesto economico feudale non era un male che colpiva soltanto la contea di Modica: si trattava del fenomeno diffuso e generalizzato del declino inarrestabile, del tramonto anzi, della vecchia classe nobiliare, con i suoi latifondi che ne costituivano l’anima economica e le garantivano rendite parassitarie. Dunque, se le “famiglie nobilissime e principalissime del Regno” erano avviate alla rovina economica e all’estinzione, ciò non era dovuto soltanto all’amministrazione disonesta di “Baronie, feghi e Stati” né solamente al lusso eccessivo in cui i nobili vivevano,
«Alla fine del Cinquecento – afferma lo storico R. Villari - cominciarono a manifestarsi in Europa segni di recessione economica che successivamente, intorno al 1620, sfociarono in una crisi generale. La fase negativa si protrasse per alcuni decenni, oltre la metà del XVII secolo. Ristagno demografico, contrazione degli scambi commerciali, carestie, declino della produzione agricola e manifatturiera, accentuata instabilità dei prezzi furono fenomeni caratteristici di quel periodo».
A partire dal 1591 la carestia colpiva con cadenza annuale: nei primi del Seicento era tale la penuria di grano, che il presidente del Regno Marchese di Geraci emanava nel 1606 un’ordinanza con la quale si vietava rigorosamente ai nobili di portare polsini e colletti inamidati. Si sopravviveva ormai all’interno di quella che lo storico francese Le Roy Ladurie ha definito una vera e propria “little ice age” europea, una piccola èra glaciale che andò dal 1550 al 1700. Quel quindicennio di cattivi raccolti era il segno di un calo irreversibile in Sicilia della produzione granaria, mentre contemporaneamente crollava il prezzo internazionale del grano, per cui si profilava la fine imminente dell’importanza europea del grano siciliano.
Subendo una flessione la produttività agricola e la relativa rendita fondiaria, per il baronaggio restavano come fonte primaria e vitale di reddito i proventi delle imposte dirette e indirette, cioè le gabelle.
Quali erano le gabelle che i vassalli della contea di Modica, come peraltro tutti quelli dell’intera Sicilia, erano tenuti a pagare? Premesso che la maggior parte delle gabelle che ci accingiamo a elencare risalivano già al tempo di Bernardo Cabrera, le tre più importanti, in quanto assicuravano un gettito maggiore, erano: la “Cassia” o “Caxia”, che riguardava la compravendita di beni stabili o immobili (dovevano pagarla sia il venditore che il compratore) ed era pari a tarì 1 e grani 12 per ogni onza di valore di quei beni; la “Dogana” o “ Dohana”, un’imposta o dazio sulla commercializzazione dei prodotti locali (formaggi, canape, lino, lana, legumi, cera, pelli d’agnello, capretti e conigli, carrube, etc.); “l’Arco di cotone”, una tassa sulla quantità di cotone lavorato, che era così chiamata perché si usava un arco la cui corda tesa serviva per battere il cotone e separarlo dai semi.
Poi c’era la “gabella del vino”, relativa alla sua compravendita sia al dettaglio che all’ingrosso; quella della “carne”, sia sulla macellazione che sulla vendita (curiosamente ne erano esenti i caprini, e ciò Bernardo Cabrera aveva disposto in ossequio al proprio stemma, che come indica il cognome spagnolo aveva come simbolo una capra); della “barderìa”, balzello che gravava sui proprietari di cavalcature selvagge alle quali mettevano il capestro e la barda o sella senza arcioni; del “bardaggio”, tassa imposta a chi confezionava barde per equini; della “tinturìa”, tassa pagata annualmente dai tintori di stoffa; della “crivarìa”, pagata da chi fabbricava crivelli per il grano; degli “erbaggi”, che gravava sugli animali portati al pascolo; della “colta”, che consisteva in una percentuale del frumento prodotto o raccolto che ogni capofamiglia era tenuto a versare al conte; del “merco”, dazio imposto sulla marchiatura delle bestie destinate al macello; dei “vasi” o “vaxelli”, sulle arnie usate dagli allevatori di api e produttori di miele; della “buscaglia”, tassa da versare per ogni animale che trasportava la legna raccolta nei boschi del conte; la “baglìa”, una tassa per mantenere il “baiulo” o “baglìo”, l’impiegato che in ogni “università” sovrintendeva alla sorveglianza delle terre coltivate e a quella notturna dei centri abitati, nonché alla pulizia di strade, fontane e abbeveratoi; la “sciurta”, altra tassa per il mantenimento delle sentinelle notturne.
Non si può certo dire che i vassalli della contea fossero privi di una qualsiasi della miriade di tasse e balzelli previsti dall’iniquo sistema feudale. Ancora più iniquo, in quanto da molte di queste gabelle erano esenti o “franchi” tutti i nobili e molti professionisti (notai, avvocati, speziali, ecc.). Al punto che il nostro viceré duca di Feria, ben intuendo che i proventi delle gabelle erano le uniche entrate certe e consistenti dei magri bilanci baronali,
«volle anche riparare alla pessima ripartizione de’ pesi, che si faceano dalle Università del regno nell’imporre i dazj, e i donativi, che si pagavano al Re, per cui spesso accadea, che restavano aggravati i poveri, ed erano esenti o in tutto, o in parte dalla contribuzione i benestanti, e procurò di stabilirvi una uguaglianza, per cui i tributi fossero pagati a misura degli averi di ciascheduno».
Riuscì il duca di Feria a far sì che “i tributi fossero pagati a misura degli averi di ciascheduno”? Se così fosse stato, il suo costituirebbe l’unico esempio della civiltà occidentale moderna e contemporanea. E infatti così non fu:
«Per quanto però vi si fosse cooperato, pochissimo fu il frutto, che ne trassero i popoli; le cabale, ed i raggiri di coloro, che impongono le gabelle, i quali sogliono essere i più potenti, e i più comodi, ne faceano per lo più cadere tutto il peso sopra i meschini».
FRANCESCO EREDDIA