" ´GALLISMO ´ E DONGIOVANNISMO NELLA TRADIZIONE LETTERARIA SICILIANA " DI FRANCESCO EREDDIA
DELLE COSE DI SICILIA
Uomini e fatti senza tempo
Passai, e passannu la vitti abballari,
cu ‘na scarpetta di lucenti sita:
cchiù di dui voti la vulìa vasari,
vasari ‘ntra dda vucca sapurita.
Lu me’ cumpagnu mi dissi: ‘un lu fari,
cu’ vasa a donni cc’è pena di vita.
Ju cci rispusi: ‘na morti haju a fari,
pri ‘na vasata cci dugnu la vita.
Questi versi sono del poeta siciliano Antonio Veneziano da Monreale e fanno parte di una raccolta di liriche dedicate alla sua donna, Celia, e pubblicate nel 1581, cioè più di quattrocento anni fa.
Si viveva allora, in Sicilia come nel resto dell’Italia e dell’Europa, in piena atmosfera rinascimentale, e la poesia dominante era la lirica d’amore in lingua toscana modellata su quella del Petrarca e del suo “Canzoniere”. Una lirica sentimentale, fondata sulla contemplazione platonica della donna, per cui l’amore era una sorta di sublimazione intellettuale e spirituale che, attraverso la bellezza terrena incarnata dalla donna, distaccava l’anima umana dalla attrazione delle cose mondane e la trasportava verso l’intuizione dei misteri divini. In questa direzione abbiamo, ad esempio, il celeberrimo dipinto del Botticelli, la “Nascita di Venere”, in cui l’antica e pagana dea dell’amore diventava il simbolo platonico dell’aspirazione dell’anima umana al divino.
Ma Antonio Veneziano era un ‘diverso’ rispetto ai suoi tempi. Le cronache dell’epoca ce lo presentano come un violento, un sensuale, uno scialacquatore, incostante negli affetti familiari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentavano. Era un irregolare, insomma, un ribelle, un anticonformista, sempre in mezzo a disavventure e vicende giudiziarie, fin da giovanissimo.
Gli uomini come lui, in quel clima siciliano petrarchesco e toscaneggiante, preferivano il dialetto, linguaggio dei sentimenti e delle emozioni, e lo contrapponevano al linguaggio della ragione, il latino e soprattutto il toscano (cioè, l’italiano), che era la lingua del “sistema”, dell’ordine costituito, delle istituzioni (si ricordi che la Sicilia era sotto l’odiata dominazione spagnola, sostenuta dall’aristocrazia isolana, cioè dai baroni).
«Un grandi affettu – scriveva il Veneziano nella presentazione dei suoi versi d’amore per Celia – non si basta megghiu esplicari ch’in linguaggiu maternu. E cussì videmu, quann’unu è troppu ‘n còlura, o superchiu allegru, dà subbitu ne la propria sua lingua, pri struttissimu chi sia di parlari autri linguaggi».
Aggiungiamo, con un po’ d’ironia, che Antonio Veneziano da Monreale “troppu ‘n còlura”, cioè “arrabbiato”, lo era stato quasi sempre nel corso della sua tumultuosa esistenza. Esistenza conclusasi tragicamente nel 1593, quando era saltato in aria il magazzino delle polveri del Castello a mare di Palermo, sede del terribile Sant’Uffizio, cioè dell’Inquisizione. Fra le decine di vittime dell’esplosione ci fu appunto il poeta ribelle Antonio Veneziano. Se consideriamo che chi manifestava una sensualità eccessiva o un atteggiamento trasgressivo contro ogni potere costituito (ivi compreso quello ecclesiastico) era per l’Inquisizione del tempo un eretico nemico di Dio e della Chiesa, possiamo facilmente intuire quale “eretica pravità” aveva fatto piombare il Veneziano nelle tremende carceri sotterranee del Castellamare di Palermo.
Ci preme appunto in questa sede porre l’accento sulla sensualità e carnalità dell’amore quale era inteso dal Veneziano e da tanti altri poeti dialettali del Cinquecento siciliano. Una sensualità e una carnalità che si contrapponevano al conformismo platonico e idealizzante degli altri poeti siciliani seguaci della moda rinascimentale. Una sensualità e una carnalità, peraltro, che avevano antiche radici arabe:
Di ‘na finestra s’affacciàu la luna:
su’ tanti li splenduri ca mi duna.
C’eni lu Gaitu e gran pena mi duna:
voli arrinunziu a la fidi cristiana.
L’immagine della donna-luna, come il riferimento al Caìd (una sorta di funzionario islamico) e all’obbligo di rinnegare la religione cristiana per abbracciare quella musulmana, colloca questi versi nel periodo della dominazione araba in Sicilia e ci riporta a dieci secoli fa.
«Da quanti secoli – scriveva Sciascia – la luna-donna, la luna-donna amata dalla lirica araba, s’affaccia a regalare splendore, ad alimentare pensieri fantasie sogni discorsi?».
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«Quando in un caffè di Caloria (lasciatemi chiamare così la città siciliana di cui facilmente indovinate il nome), quando in un caffè di Caloria vedete un gruppo che, d’un tratto, rimuove brutalmente il tavolo per essere più stretto intorno al narratore, e colui che sonnecchiava sgrana gli occhi, lampeggiando attraverso le lacrime del sonno non ancora asciugate, e il vecchio signore si passa fortemente la mano sulla bocca contorta, e il ragazzo di liceo tiene, come un confetto, la lingua fra i denti, e tutti sono curvi in avanti con le facce piene di sangue; allora siate certi che si parla della donna».
Il passo appartiene a un romanzo dello scrittore Vitaliano Brancati, “Don Giovanni in Sicilia”. Il romanzo è un quadro vivace e ironico di una grossa città siciliana, Catania, e dei suoi giovani abitanti, ammalati tutti di ‘gallismo’, o dongiovannismo che dir si voglia. Quadro probabilmente di un tempo che fu, giacché le trasformazioni avvenute in Sicilia nella seconda metà del Novecento hanno spazzato via anche questo modo di vivere e di essere.
Quei giovani di Brancati passavano le giornate a fantasticare di avventure d’amore e a tentare approcci, a frequentare città come Roma o celebri luoghi di villeggiatura con l’intenzione sempre frustrata di avere relazioni sentimentali. E’ un quadro divertente, ma in fondo amaro, della provincia siciliana di un tempo, fatta di megalomanie, di velleità, di frustrazioni: ma è anche l’emblema della società fascista del tempo, caratterizzata dalla faciloneria, dal velleitarismo, dai sogni di grandezza imperiale.
«Che differenza c’è – si chiede il Salinari, critico letterario – tra il gallismo puramente verbale dei giovani catanesi e la potenza puramente formale degli “otto milioni di baionette” e dei “colli fatali”?».
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Scriveva Dominique Fernandez in un suo celebre libro, “Mar Mediterraneo”:
«Ogni volta che avvicino un siciliano, è come se affrontassi una battaglia il cui esito si presenta incerto. Con chi ho a che fare? Quale corda devo toccare? La sottigliezza greca, la brutalità punica, il fatalismo musulmano, l’orgoglio spagnolo, la furberia napoletana?».
Gli replicava Sciascia che paradossalmente è (o piuttosto, era) proprio nella donna, o meglio «nel discorrere sulla donna», cioè nel dongiovannismo «puramente verbale», che questi caratteri diversi e contrastanti dei siciliani si fondono. Il «discorrere sulla donna» rappresenta (o meglio, rappresentava) il punto d’identità, in punto in cui sottigliezza greca, brutalità punica, fatalismo musulmano, orgoglio spagnolo e furberia napoletana si fondono, il punto in cui gioia e malinconia, commedia e tragedia, slancio vitale e contemplazione della morte si fondono.
“Contemplazione della morte”. Come nei versi del Veneziano citati ad apertura di questo nostro discorso – il Veneziano artefice di un sensuale, poetico e patetico “discorrere sulla donna” -, in cui amore e morte convergono e si fondono. Perché, in fondo, il dongiovannismo era la più violenta protesta al culto della morte instaurato nel Cinquecento dalla Santa Inquisizione, soprattutto in Sicilia. Era, il dongiovannismo, un’esplosione di vitalità e di voluttà, più raccontata e pensata che vissuta realmente, da opporre al ricorrente pensiero della morte. Il piacere sottile prodotto dal “discorrere sulla donna” non può essere sostituito nemmeno dalla donna stessa, perché il piacere reale può essere limitato nel tempo, mentre quel discorrerne all’infinito dilata il piacere nel tempo e nello spazio, all’infinito.
A questo proposito, il catanese Francesco Guglielmino, letterato e poeta d’amore, disse una volta al Verga, parlando dei siciliani: «Caro Giovanni, siamo romantici!». E il Verga: «Macché romantici, figlio mio: siamo ingravidabalconi!».
FRANCESCO EREDDIA