COMISO - DALLE CADILLAC DELLE VIE DE L' HAVANA ALLE PIAZZE METAFISICHE IBLEE E AI MISTERI DELLE DONNE SULLE SPONDE DEL MAR D'AFRICA: OLTRE 40 OPERE DI GIANCARLO GIUFFRIDA IN MOSTRA ALLA " PRO LOCO ".






Con la personale di Gianfranco Giuffrida la Pro Loco di Comiso aggiunge un nuovo prezioso tassello alla sua inesauribile opera di promozione dei talenti artistici comisani, proseguendo un cammino che tanto frutto ha dato nel corso dei decenni.
Il caso in questione è tanto più degno di lode se si considera il valore intrinseco dell'autore che ci viene proposto, rimasto finora nascosto all'attenzione del pubblico e della critica a causa della sua natura estremamente schiva e restia alle seduzioni della ribalta. L'interesse dell'evento è ulteriormente accresciuto dal fatto che la limitata esposizione che viene oggi presentata ha tutta l'aria di essere solo un assaggio di una produzione più ampia. C'è pertanto da aspettarsi – e da augurarsi - che Giuffrida, messa da parte la sua innata ritrosia, condivida in futuro con più generosità i frutti della sua pluridecennale attività artistica. Sarà quello il momento per un bilancio più preciso ed esaustivo dei caratteri della sua pittura. Sin da adesso possiamo tuttavia individuarne alcuni tratti specifici e caratterizzanti su cui sarà utile soffermarsi brevemente.
L'aspetto che per primo salta agli occhi è certamente la raffinata padronanza tecnica, di cui l'artista è pienamente consapevole e che anzi in più di una circostanza esalta fino ai limiti del virtuosismo, come per esempio quando costringe immagini complesse entro spazi estremamente ridotti, quasi a riproporre in chiave moderna il gusto medievale per la miniatura. Non è tuttavia virtuosismo nel senso proprio del termine, in quanto non è un atteggiamento fine a sé stesso, quanto piuttosto una componente pienamente integrata del linguaggio poetico di Giuffrida, un linguaggio estremamente sofisticato che si manifesta da un lato nello stretto legame con i modelli prediletti, dall'altro nella volontà di rielaborarli e piegarli alle proprie inclinazioni personali.
Possiamo iniziare proprio dai modelli, tra i quali spicca con grande evidenza la presenza potente e pervasiva del maestro comisano Giovanni La Cognata. Il rapporto tra lo stile di Giuffrida e il linguaggio espressivo di questo artista è talmente profondo e radicato, che derubricarlo ad un semplice “influsso”, per quanto intenso, sarebbe sminuirne e fraintenderne la natura. Si tratta, piuttosto, della condivisione di un medesimo modo di intendere il dipingere, per cui è impossibile caratterizzare il linguaggio dell'uno senza contestualmente rimandare ai tratti essenziali dello stile dell'altro. Questa condivisione non implica, tuttavia, un sacrificio di originalità delle singole personalità: mi sembra, in altri termini, che questa relazione si configuri secondo le dinamiche tipiche di quegli insiemi di artisti che tradizionalmente – e con grande dose di convenzionalità – i critici sogliono definire “gruppo” o “scuola”. Alla possibile obiezione che due artisti non bastano a fare un “gruppo”, si potrà agevolmente ribattere ricordando che, qualora si prosegua sul filo di certe affinità espressive, non è difficile risalire ad un terzo significativo pittore comisano, che rivela anch'egli un forte grado di prossimità con i due precedenti, e che è Salvo Barone. Non è questa la sede per una esaustiva discussione sulle relazioni tra questi pittori, né tanto meno per proporre facili etichette, ma è innegabile che aver richiamato l'attenzione su queste affinità va senz'altro annoverato tra i più significativi meriti dell'esposizione comisana di Giuffrida. Senza fare riferimento a questo contesto di relazioni e modelli, infatti, non è possibile comprendere la pittura dell'Autore e, di contro, non conoscendo questo Autore, anche il contesto delle relazioni entro cui è inserito, resta evanescente.
Il recupero della figuratività è un fatto ormai consolidato nella pittura degli ultimi decenni, così come il ritorno a forme espressive legate alla tradizione e alla tecnica. Questo rinnovato interesse per il figurativo si manifesta in una sorta di nuovo realismo che oscilla tra la fredda – e in genere vacua – obiettività fotografica degli iperrealisti, e la tendenza a trasfigurare le immagini del quotidiano attraverso una rielaborazione a cavallo tra lirismo e inquietudine, malinconia e angoscia, disperazione e vitalismo. Questa seconda opzione è quella che hanno fatto propria i pittori di cui stiamo parlando. Si tratta di una trasfigurazione del reale che trova il suo pieno compimento nello stile: in un uso virtuoso del disegno che delinea e al tempo stesso abbozza la fisionomia delle figure, e nel ricorso accorato al colore che accende e incupisce le immagini, destrutturandone e ricomponendone la dimensione cromatica. Un atteggiamento i cui modelli più vicini sono stati riconosciuti in Lucian Freud o Francis Bacon, ma che trova più radicate ascendenze nella grande stagione della pittura europea e americana di fine ‘800-inizi novecento, quando le figure tratte dalla realtà, dai ritratti, al paesaggio naturale, alla vita urbana, alla natura morta, divennero lo spunto per intense rielaborazioni interiori. Van Gogh, Gauguin, Munch, Hopper possono essere citati, senza tralasciare il grande Cezanne che, nonostante l'apparente distanza, condivide più degli altri, con i nostri pittori, l'accanita fiducia nelle virtù della tecnica.
Se questi sono i modelli a cui aderisce la pittura di Giuffrida, occorrerà adesso, in ottemperanza al principio che un “gruppo” non è solo condivisione di un'idea comune, ma anche spazio entro cui esprimere la propria originalità, soffermarsi più specificamente sui tratti caratterizzanti della sua opera, sia in termini di soggetti che di stile. Pur nella sua limitatezza, l'esposizione ci offre un saggio variegato della produzione di Giuffrida che in parte riprende, ma per lo più si discosta e integra, i temi affrontati dagli altri due artisti comisani citati. Tra le riprese, vanno certamente annoverati gli scorci urbani, riprodotti con la stessa acribia fotografica e vitalità cromatica di La Cognata. Mancano invece la campagna iblea, che tripudia di colori nella pittura di La Cognata, così come i ritratti che tanto rilievo hanno nella produzione di Barone. Di contro, ampio spazio è assegnato al tema del nudo femminile, che qui perde le connotazioni realistiche e ritrattistiche che troviamo in La Cognata, per valorizzare la sensualità e monumentalità delle forme, anche quando le figure sono virtuosisticamente costrette entro anguste superfici pittoriche. Si tratta di un omaggio alla bellezza classica, più anelata e malinconicamente rimpianta, che serenamente posseduta. Spesso associata al mare, essa è rivisitata in chiave vitalistica, anche in questo caso con uno sforzo di volontà che ricorda l'atteggiamento dei Fauves. A questi, si aggiungono altri temi ancora più originali, che rimandano a vaghe contaminazioni con il simbolismo e il surrealismo, come è il caso della serie dedicata al betta splendens, il pesce combattente, in cui è facile leggere la mesta allusione ai limiti della condizione umana, accentuata dalle esigenze di spazio eccezionalmente ridotte della specie rappresentata. Le pennellate di Giuffrida esaltano con maestria la straordinaria varietà cromatica dell'animale, che spicca nella limpidezza dell'acqua, anche qui a voler esprimere lo struggente contrasto tra l'anelito alla bellezza e la consapevolezza della sua natura effimera e prigioniera. Alla medesima tendenza alla rielaborazione concettuale e simbolica delle immagini, va ricondotta la serie degli scorci urbani riflessi sulla superficie di auto in sosta. Un discostamento rilevante rispetto ad un soggetto ripreso da La Cognata, che si sofferma ancora una volta sul conflitto tra impulso alla bellezza e disagio claustrofobico della quotidianità. In queste immagini, l'auto, simbolo opprimente del progresso consumista, soffoca e annulla la bellezza dei nostri centri storici. E così, solo un effimero riflesso può restituirci per un istante la consapevolezza di un luogo, di una identità, di una storia. Gli scorci rappresentati non sono infatti spazi generici, possiedono una loro inconfondibile icasticità, sono Comiso, Vittoria, Catania, nella loro architettura tradizionale, nelle loro radici antiche, svanite e rimpiante. Questa inclinazione malinconica, inquietamente rassegnata, mi sembra la cifra più caratteristica della poetica di Giuffrida, che emerge con evidenza anche nei tratti più specifici dello stile, specialmente quando confrontata alla pittura più decisa, nervosa e accesa di La Cognata. Giuffrida delinea forme più solide e accostamenti cromatici più suadenti, con una malcelata propensione verso il classico, inteso come unico depositario di un'armonia definitivamente perduta ma da rimpiangere per sempre. Il rapporto che lega il nostro Autore ai suoi modelli, per quanto intensissimo e quasi simbiotico, non ne limita dunque le esigenze espressive. Gli offre anzi il contesto naturale entro cui sviluppare i tratti originali della sua carica poetica. Da spettatori ammirati e coinvolti, non ci resta che augurare a Gianfranco di continuare a creare e produrre e, a noi, di poter condividere con più frequenza in futuro il frutto delle sue raffinate e intense esperienze pittoriche.
Dario Puglisi
Il caso in questione è tanto più degno di lode se si considera il valore intrinseco dell'autore che ci viene proposto, rimasto finora nascosto all'attenzione del pubblico e della critica a causa della sua natura estremamente schiva e restia alle seduzioni della ribalta. L'interesse dell'evento è ulteriormente accresciuto dal fatto che la limitata esposizione che viene oggi presentata ha tutta l'aria di essere solo un assaggio di una produzione più ampia. C'è pertanto da aspettarsi – e da augurarsi - che Giuffrida, messa da parte la sua innata ritrosia, condivida in futuro con più generosità i frutti della sua pluridecennale attività artistica. Sarà quello il momento per un bilancio più preciso ed esaustivo dei caratteri della sua pittura. Sin da adesso possiamo tuttavia individuarne alcuni tratti specifici e caratterizzanti su cui sarà utile soffermarsi brevemente.
L'aspetto che per primo salta agli occhi è certamente la raffinata padronanza tecnica, di cui l'artista è pienamente consapevole e che anzi in più di una circostanza esalta fino ai limiti del virtuosismo, come per esempio quando costringe immagini complesse entro spazi estremamente ridotti, quasi a riproporre in chiave moderna il gusto medievale per la miniatura. Non è tuttavia virtuosismo nel senso proprio del termine, in quanto non è un atteggiamento fine a sé stesso, quanto piuttosto una componente pienamente integrata del linguaggio poetico di Giuffrida, un linguaggio estremamente sofisticato che si manifesta da un lato nello stretto legame con i modelli prediletti, dall'altro nella volontà di rielaborarli e piegarli alle proprie inclinazioni personali.
Possiamo iniziare proprio dai modelli, tra i quali spicca con grande evidenza la presenza potente e pervasiva del maestro comisano Giovanni La Cognata. Il rapporto tra lo stile di Giuffrida e il linguaggio espressivo di questo artista è talmente profondo e radicato, che derubricarlo ad un semplice “influsso”, per quanto intenso, sarebbe sminuirne e fraintenderne la natura. Si tratta, piuttosto, della condivisione di un medesimo modo di intendere il dipingere, per cui è impossibile caratterizzare il linguaggio dell'uno senza contestualmente rimandare ai tratti essenziali dello stile dell'altro. Questa condivisione non implica, tuttavia, un sacrificio di originalità delle singole personalità: mi sembra, in altri termini, che questa relazione si configuri secondo le dinamiche tipiche di quegli insiemi di artisti che tradizionalmente – e con grande dose di convenzionalità – i critici sogliono definire “gruppo” o “scuola”. Alla possibile obiezione che due artisti non bastano a fare un “gruppo”, si potrà agevolmente ribattere ricordando che, qualora si prosegua sul filo di certe affinità espressive, non è difficile risalire ad un terzo significativo pittore comisano, che rivela anch'egli un forte grado di prossimità con i due precedenti, e che è Salvo Barone. Non è questa la sede per una esaustiva discussione sulle relazioni tra questi pittori, né tanto meno per proporre facili etichette, ma è innegabile che aver richiamato l'attenzione su queste affinità va senz'altro annoverato tra i più significativi meriti dell'esposizione comisana di Giuffrida. Senza fare riferimento a questo contesto di relazioni e modelli, infatti, non è possibile comprendere la pittura dell'Autore e, di contro, non conoscendo questo Autore, anche il contesto delle relazioni entro cui è inserito, resta evanescente.
Il recupero della figuratività è un fatto ormai consolidato nella pittura degli ultimi decenni, così come il ritorno a forme espressive legate alla tradizione e alla tecnica. Questo rinnovato interesse per il figurativo si manifesta in una sorta di nuovo realismo che oscilla tra la fredda – e in genere vacua – obiettività fotografica degli iperrealisti, e la tendenza a trasfigurare le immagini del quotidiano attraverso una rielaborazione a cavallo tra lirismo e inquietudine, malinconia e angoscia, disperazione e vitalismo. Questa seconda opzione è quella che hanno fatto propria i pittori di cui stiamo parlando. Si tratta di una trasfigurazione del reale che trova il suo pieno compimento nello stile: in un uso virtuoso del disegno che delinea e al tempo stesso abbozza la fisionomia delle figure, e nel ricorso accorato al colore che accende e incupisce le immagini, destrutturandone e ricomponendone la dimensione cromatica. Un atteggiamento i cui modelli più vicini sono stati riconosciuti in Lucian Freud o Francis Bacon, ma che trova più radicate ascendenze nella grande stagione della pittura europea e americana di fine ‘800-inizi novecento, quando le figure tratte dalla realtà, dai ritratti, al paesaggio naturale, alla vita urbana, alla natura morta, divennero lo spunto per intense rielaborazioni interiori. Van Gogh, Gauguin, Munch, Hopper possono essere citati, senza tralasciare il grande Cezanne che, nonostante l'apparente distanza, condivide più degli altri, con i nostri pittori, l'accanita fiducia nelle virtù della tecnica.
Se questi sono i modelli a cui aderisce la pittura di Giuffrida, occorrerà adesso, in ottemperanza al principio che un “gruppo” non è solo condivisione di un'idea comune, ma anche spazio entro cui esprimere la propria originalità, soffermarsi più specificamente sui tratti caratterizzanti della sua opera, sia in termini di soggetti che di stile. Pur nella sua limitatezza, l'esposizione ci offre un saggio variegato della produzione di Giuffrida che in parte riprende, ma per lo più si discosta e integra, i temi affrontati dagli altri due artisti comisani citati. Tra le riprese, vanno certamente annoverati gli scorci urbani, riprodotti con la stessa acribia fotografica e vitalità cromatica di La Cognata. Mancano invece la campagna iblea, che tripudia di colori nella pittura di La Cognata, così come i ritratti che tanto rilievo hanno nella produzione di Barone. Di contro, ampio spazio è assegnato al tema del nudo femminile, che qui perde le connotazioni realistiche e ritrattistiche che troviamo in La Cognata, per valorizzare la sensualità e monumentalità delle forme, anche quando le figure sono virtuosisticamente costrette entro anguste superfici pittoriche. Si tratta di un omaggio alla bellezza classica, più anelata e malinconicamente rimpianta, che serenamente posseduta. Spesso associata al mare, essa è rivisitata in chiave vitalistica, anche in questo caso con uno sforzo di volontà che ricorda l'atteggiamento dei Fauves. A questi, si aggiungono altri temi ancora più originali, che rimandano a vaghe contaminazioni con il simbolismo e il surrealismo, come è il caso della serie dedicata al betta splendens, il pesce combattente, in cui è facile leggere la mesta allusione ai limiti della condizione umana, accentuata dalle esigenze di spazio eccezionalmente ridotte della specie rappresentata. Le pennellate di Giuffrida esaltano con maestria la straordinaria varietà cromatica dell'animale, che spicca nella limpidezza dell'acqua, anche qui a voler esprimere lo struggente contrasto tra l'anelito alla bellezza e la consapevolezza della sua natura effimera e prigioniera. Alla medesima tendenza alla rielaborazione concettuale e simbolica delle immagini, va ricondotta la serie degli scorci urbani riflessi sulla superficie di auto in sosta. Un discostamento rilevante rispetto ad un soggetto ripreso da La Cognata, che si sofferma ancora una volta sul conflitto tra impulso alla bellezza e disagio claustrofobico della quotidianità. In queste immagini, l'auto, simbolo opprimente del progresso consumista, soffoca e annulla la bellezza dei nostri centri storici. E così, solo un effimero riflesso può restituirci per un istante la consapevolezza di un luogo, di una identità, di una storia. Gli scorci rappresentati non sono infatti spazi generici, possiedono una loro inconfondibile icasticità, sono Comiso, Vittoria, Catania, nella loro architettura tradizionale, nelle loro radici antiche, svanite e rimpiante. Questa inclinazione malinconica, inquietamente rassegnata, mi sembra la cifra più caratteristica della poetica di Giuffrida, che emerge con evidenza anche nei tratti più specifici dello stile, specialmente quando confrontata alla pittura più decisa, nervosa e accesa di La Cognata. Giuffrida delinea forme più solide e accostamenti cromatici più suadenti, con una malcelata propensione verso il classico, inteso come unico depositario di un'armonia definitivamente perduta ma da rimpiangere per sempre. Il rapporto che lega il nostro Autore ai suoi modelli, per quanto intensissimo e quasi simbiotico, non ne limita dunque le esigenze espressive. Gli offre anzi il contesto naturale entro cui sviluppare i tratti originali della sua carica poetica. Da spettatori ammirati e coinvolti, non ci resta che augurare a Gianfranco di continuare a creare e produrre e, a noi, di poter condividere con più frequenza in futuro il frutto delle sue raffinate e intense esperienze pittoriche.
Dario Puglisi