" CRONACA DI UN CASO ( VECCHIO ) DI MALASANITA' " del dott. Salvatore Cilia
Nell'agosto di quasi 12 anni fa si spegneva, a seguito di intervento, un piccolo imprenditore di Comiso, presso il reparto di Cardiologia dell'Ospedale " Maria Paternò Arezzo " di Ragusa Ibla. I familiari presentavano denuncia-querela, cosa che ha messo in moto il meccanismo della giustizia, penale e civile, meccanismo che ha trovato solo ora, dopo quasi 12 anni, la propria conclusione, con la definitiva condanna sul piano civile e penale dei responsabili.
Riportiamo la cronaca di tutta la vicenda, ricostruita dal dott. Salvatore Cilia, Presidente di Sezione emerito della Corte dei Conti di Palermo (NdR)
Cronaca di un caso (vecchio) di malasanità
Nella notte fra il 14 e il 15 agosto 2011 moriva un piccolo imprenditore edile di Comiso presso il Reparto di Cardiologia dell'Ospedale “Maria Paternò Arezzo” di Ragusa, al quale era stato inoltrato dal Pronto Soccorso dell'Ospedale Civile (dove il paziente era stato “stabilizzato”). La stessa mattinata del 15 agosto alcuni congiunti dell'uomo deceduto sporsero denuncia-querela alla Compagnia di Ragusa della Legione Carabinieri “Sicilia”, i quali – dopo avere descritto le vicende che si sono susseguite fra l'8 luglio 2011 e la data della morte – affermarono (in risposta a specifica domanda dei sottufficiali verbalizzanti) che “per i fatti suesposti riteniamo che si siano verificate delle negligenze da parte del personale medico che ha trattato la patologia del nostro congiunto”.
Ciò stante, sintetizzo al massimo tutta la conseguente vicenda giudiziaria (penale e civile).
Nei giorni immediatamente successivi, alcuni Quotidiani – – pur in un quadro caratterizzato da “tre morti sospette” verificatesi negli Ospedali di competenza della ASP di Ragusa – diedero ampio spazio alle tesi “giustificatorie” e alle conferenze-stampa della struttura aziendale, mai avere avvertito il bisogno (per completezza e obiettività giornalistica) di “sentire” l'altra campana. Infatti, con particolare riferimento alla vicenda di cui sopra, la cronaca non avrebbe dovuto riportare acriticamente la dichiarazione del direttore sanitario aziendale, in base alla quale “il paziente, dopo aver partecipato ai festeggiamenti del ferragosto (!?), è arrivato in ospedale con un episodio di tachicardia ventricolare degenerata a fibrillazione ventricolare. Come tutti sappiamo si tratta di una gravissima patologia” (senza chiedere e chiedersi cosa volesse significare la formula “dopo avere partecipato ai festeggiamenti del ferragosto” e quali finalità tale formula volesse fare intravedere); e non si sarebbe dovuto scrivere che “l'uomo era stato portato al Pronto soccorso dell'ospedale Civile di Ragusa con i sintomi di un infarto, quindi era stato trasferito al Maria Paternò Arezzo di Ragusa Ibla dove i medici avrebbero dovuto provvedere con un'angioplastica, ma non ci sarebbe stato il tempo”. (Grossa imprecisione: in effetti, l'angioplastica era stata invece praticata già il 2 agosto e – come si vedrà – era stato proprio l'impianto degli “stents” la causa della morte). Inoltre, nella stampa si poteva leggere che negli ultimi giorni, i medici dell'Azienda “hanno salvato la vita” almeno a tre soggetti (nonostante le quasi coeve “tre morti sospette”), seguendo così la linea della “giustificazione” e della “esaltazione” a priori, come se, dopo tre “salvataggi”, il personale medico matura il diritto di “non salvare” il quarto (e il quinto): laddove, l'unica cosa che conta – dal punto di vista del diritto, penale (ma anche civile) – è che, rispetto al quarto (o al quinto) “non salvato”, ci siano (o non ci siano) i presupposti della colpa in capo all'esercente la professione sanitaria, così come individuata dall'art. 43 del codice penale (cioè, che l'evento si è verificato – o non si è verificato – “a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”, e, in materia sanitaria, delle linee guida vigenti al momento del fatto), per cui sarebbe opportuno utilizzare un poco di prudenza nelle “cronache”, principalmente quando era stato avviato un processo penale.
Appena avuta la comunicazione del decesso della persona di cui si tratta, il Pubblico Ministero, per un verso, notificò il rituale avviso di garanzia a 9 medici (tutti assegnati alla Divisione di Cardiologia dell'O.M.P.A. di Ragusa), e, per altro verso, nominò due consulenti di fiducia dell'Ufficio di Procura (uno specialista in Medicina Legale, e uno specialista in Cardiologia), disponendo al contempo l'esame autoptico della salma, da effettuare presso l'obitorio dell'Ospedale “Maggiore” di Modica; all'esame autoptico furono presenti, oltre ai due periti di ufficio, il consulente dell'A.S.P. n. 7 di Ragusa, e il consulente dei congiunti dell'uomo deceduto.
Fra i 9 soggetti destinatari degli avvisi di garanzia, il Pubblico Ministero chiese al Giudice per le indagini preliminari il rinvio a giudizio di tre medici (il primario del Reparto, il medico che aveva praticato l'intervento e il medico che ha firmato il certificato di dimissioni del paziente con la terapia da applicare), richiesta accolta dal G.U.P. all'udienza del 19 dicembre 2012. I tre imputati si costituirono in giudizio col patrocinio di un avvocato di Ragusa, nominando inoltre, come consulente tecnico di parte, il titolare di una Cattedra universitaria di Cardiologia.
Il 30 gennaio 2013, i congiunti si costituirono parte civile nel processo penale col patrocinio di un avvocato di Comiso, nominando a loro volta, come consulenti tecnici di parte, il titolare di una Cattedra universitaria di Cardiochirurgia, il direttore e primario di cardiologia di un Ospedale e uno specialista anatomopatologo e docente universitario di medicina legale.
All'udienza dell'11 luglio 2016, il giudice dispose una ulteriore perizia medico-legale, nominando come consulenti d'ufficio un medico legale, docente universitario, nonché uno specialista in Cardiochirurgia, anch'esso docente universitario. La relazione tecnica dei due consulenti – ripercorrendo puntualmente tutto il corso della dolorosa vicenda – si è sostanzialmente adeguata alla linea ragionativa dei periti del Pubblico Ministero e dei consulenti delle parti civili, revocando in dubbio integralmente, per contro, l'impostazione e le conclusioni del consulente degli imputati, rilevando poi che “il sanitario operatore, pur a conoscenza delle controindicazioni nelle linee guida 2011 dell'intervento di angioplastica in soggetti allergici all'acido acetilsalicilico, ha ritenuto di potere ugualmente eseguire l'intervento di angioplastica senza valutare il rischio reale e fornendo al paziente un indice di mortalità del reparto che non riguardava il caso specifico”, concludendo nel senso che lo stesso operatore, al fine di prendere la decisione finale, “si doveva rivolgere quantomeno al suo responsabile con obbligo di vigilanza” (declinandone nome e cognome). E il responsabile, non rinviato a giudizio, venne sentito come teste.
L'esito della sentenza (n. 722/17) fu la condanna di uno degli imputati (il medico operatore) a sei mesi di reclusione (per omicidio colposo), oltre al pagamento delle spese processuali, la condanna dello stesso (in solido con il responsabile civile ASP n. 7 di Ragusa) al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, e l'assoluzione degli altri due imputati “per non avere commesso il fatto ascritto in rubrica” (concorso in omicidio colposo).
La sentenza esordisce affermando che il paziente “è deceduto in seguito ad arresto cardiaco irreversibile secondario ad infarto miocardico acuto anteriore causato da ostruzione trombotica dello stent impiantato sull'interventricolare anteriore nel corso dell'intervento di angioplastica eseguito il 2.8.2011 dall'operatore” e che, considerate le buone condizioni di salute del paziente medesimo, “lo stesso ben avrebbe potuto affrontare anche interventi più invasivi e più gravi sotto un punto di vista clinico, quali l'applicazione di by-pass aortocoronarico”; e poiché i consulenti del Tribunale avevano precedentemente attestato la medesima impostazione clinica, il giudice ha ulteriormente affermato che, “così facendo, l'operatore si è discostato dalle linee guida mediche esistenti al momento del fatto (e la circostanza, invero, non è stata negata nemmeno dal consulente della difesa)”, concludendo che “detta condotta del medico è, certamente, di ritenersi colposa, perché caratterizzata da imperizia, nel discostarsi arbitrariamente dalle suddette linee guida, imprudente e negligente, essendosi optato per l'intervento meno invasivo e al contempo meno adatto alle precipue caratteristiche fisiche del paziente”. Il giudice affronta in seguito il problema del nesso di causalità (fra la condotta colposa del medico operatore e l'evento morte), e ne riconosce agevolmente la sussistenza (“al di là di ogni ragionevole dubbio”), soffermandosi poi sulla fondamentale problematica della tipologia dell'intervento attuato dall'operatore, pervenendo alla conclusione che si era in presenza indubbiamente di un intervento “in elezione”, cassando così completamente l'impostazione della “emergenza” su cui la difesa aveva impostato una parte delle argomentazioni difensive (così cercando di “cambiare le carte in tavola”, come ebbe ad affermare in udienza il patrono delle parti civili); il che avrebbe agevolmente consentito “la scelta di altra forma di azione, da praticarsi in apposito reparto di cardiochirurgia”, eseguendo la quale “l'evento morte non si sarebbe verificato”: ciò stante, è agevole affermare – sillogisticamente – che il decesso è intervenuto “a causa e per effetto” della “tipologia” dell'intervento adottato, e quindi che il decesso ha consentito al giudice di attribuire al medico operatore il reato di omicidio colposo.
A conclusione, il giudice non ha avuto la necessità di affrontare i problemi di diritto intertemporale con riferimento alla legge Balduzzi (decreto-legge n.158/2012, convertito nella legge n.189/2012) e alla legge Gelli (legge n.24/2017) (entrambe successive ai fatti di causa) nell'ottica della intensità della colpa in quanto, nel caso esaminato, “la condotta posta in essere dall'imputato non era conforme alle linee guida vigenti in materia, né caratterizzata da colpa lieve”, con la conseguenza che la vicenda è ancorata esclusivamente ai meccanismi e alle pene previste dall'art. 589 del codice penale.
Ma una perplessità voglio esternare (se, oggi, è ancora possibile “commentare” le sentenze) in ordine alla quantificazione della pena comminata all'imputato. L'art. 589 del codice penale prevede, per l'omicidio colposo, la reclusione da sei mesi a cinque anni per cui, stante che l'operatore sanitario nella specie ha provocato la morte del paziente con un comportamento perché caratterizzato da imperizia, nel discostarsi arbitrariamente dalle linee guida, imprudenza e negligenza a livello non lieve (valutazioni confermate e integrate nei successivi gradi di giudizio), è difficile ritenere che il potere discrezionale attribuito al giudice dall'art. 133 del codice penale (comma 2, certo, ma anche il comma 1) per calibrare la pena sia stato applicato nel caso di specie in modo “equilibrato”, comminando, nell'ambito della pena edittale, quella “minima” (sei mesi, appunto).
La Corte di appello di Catania, pronunciandosi sul ricorso dell'imputato il 13 febbraio 2019 (cioè, 2 giorni prima che maturasse il termine di prescrizione del reato vigente all'epoca dei fatti: 7 anni e sei mesi), ha sostanzialmente confermato (sentenza n. 527/19), punto per punto (causa di morte, nesso di causalità, consenso informato), la sentenza di primo grado, sia nella linea ragionativa, sia con riferimento alla valutazione dei fatti e dei pareri tecnico-scientifici, sia nelle conclusioni, confermando ovviamente la condanna minimale in assenza dell'appello del pubblico ministero.
Infine, la Corte di cassazione, pronunciandosi a sua volta sul ricorso dell'imputato (sentenza n. 28314/2020), è pervenuta alla piena conferma delle sentenze di merito con una analisi approfondita sul piano della legittimità, rilevando:
1)-patente e inescusabile violazione, da parte dell'imputato, delle linee-guida che “deve considerarsi grave, stante la nettezza del precetto medico…, supportato da una ‘fortissima evidenza scientifica', derivante dal massimo consenso della comunità scientifica”;
2)-grave violazione nel non avere optato per l'apposizione del bypass in luogo dello stent, considerato che le buone condizioni di salute del paziente (“buona funzionalità cardiaca, renale e respiratoria”) avrebbero consentito una “agevole programmazione” per il trasferimento del paziente in una struttura idonea a praticare interventi di cardiochirurgia (in Sicilia, Catania e Palermo) e che l'impianto del bypass “avrebbe assicurato buone possibilità di sopravvivenza nel medio e nel lungo termine”;
3)-la circostanza che “il grado di colpa non poteva sicuramente dirsi lieve” (anzi, connotato da particolare gravità, sul versante – in particolare – della imprudenza e della negligenza), ma i giudici di merito non hanno avuto la necessità di affrontare – come si è detto in precedenza – i problemi intertemporali della intensità della colpa collegabili alla legge Balduzzi (del 2012) e alla legge Gelli (del 2017): orientamento quest'ultimo pienamente condiviso dalla Corte di cassazione (infatti, “una volta accertata la violazione delle linee guida adeguate al caso concreto, non rileva sul versante della responsabilità penale la verifica del grado di colpa”).
Infine, ciliegina sulla torta, il Supremo Collegio sancisce che “la manifesta infondatezza di tutti i motivi” (del ricorso in Cassazione), “determinando la mancata instaurazione di un valido rapporto impugnatorio, rende irrilevante la maturazione di prescrizione nelle more del ricorso”. Il che sta a significare, in parole povere, che, in base alla impostazione della Corte di cassazione, il processo celebrato nei confronti del medico operatore sostanzialmente si è concluso con la sentenza della Corte di appello di Catania.
Ora il processo si è concluso anche in sede civile, con la liquidazione del risarcimento del danno determinato dal Tribunale di Ragusa (in conformazione monocratica, passata in giudicato) in favore delle parti civili. Anche la sentenza civile si è mossa (come la sentenza penale di primo grado) sul crinale “minimale”, sostanzialmente senza alcuna motivazione. Tale sentenza presentava quindi evidenti ragioni di gravame; ma dopo quasi 12 anni dal 15 agosto 2011 i congiunti erano “troppo stanchi” per innescare un giudizio civile di appello.
A questo punto si potrebbe pensare, conclusivamente, che la stampa che si era interessata, a suo tempo, del caso in esame – la quale aveva intonato fragorosi peana nei confronti della “salvifica” sanità iblea – facesse ora una riflessione sul fatto che la vicenda giudiziaria si è conclusa col riconoscimento di un omicidio colposo e inoltre sulle conseguenze della sentenza della Corte di cassazione in ordine, nella specie, alla irrilevanza della maturazione della prescrizione penale.
Per parte sua, l'ASP di Ragusa si è distinta soltanto per una rocciosa difesa corporativa, allora, e per un silenzio “tombale”, ora: comportamenti che – peraltro – rientrano forse nella fisiologia delle cose umane e….burocratiche.
Conclusivamente, mi è sembrato non del tutto inutile redigere – a beneficio di chi ne avesse interesse – la cronaca di una vicenda dolorosa avvenuta quasi dodici anni fa.
Salvatore Cilia
Presidente di Sezione emerito presso la Corte dei Conti di Sicilia
13 aprile2023