CURIOSITA´ - «´A CIAVI NNO CIUOVU»? NON È UN ERRORE LINGUISTICO! ECCO LA SPIEGAZIONE DI GIANLUCA VINDIGNI
È comprensibile che ogni qualvolta un siciliano metta piede nel territorio ragusano, sentendosi dire «´a ciavi» o «´u ciuovu», scoppi a ridere e magari pensi «ma guarda un po´ come parlano questi!». In effetti – e da vittoriese mi tocca ammetterlo – costituiamo una minoranza nella Sicilia; tuttavia ciò non è affatto indice di errore linguistico. Oggi desidero squarciare questo velo di Maya una volta per tutte. Partiamo, intanto, dal presupposto che la provincia di Ragusa non è la sola a perpetrare lo storico "furto della lettera h" (che in fondo è "solo" una consonante muta, possiamo anche farne a meno...!), ma "delinque" in concorso di colpa con metà provincia di Siracusa, da Avola fino a Portopalo di Capo Passero. Va tenuto presente che Siracusa è l´unica provincia siciliana a non possedere un vero e proprio dialetto locale: la parte nord, da Brucoli fino a Cassibile, "prende in prestito" il dialetto catanese applicando minute varianti morfologiche e fonetiche; in tutto il resto della provincia, invece, si parla il dialetto modicano. Non contemplano la "h" neanche Licata e Palma di Montechiaro nell´agrigentino, né ancora isolate città come Piazza Armerina nell´ennese e Vizzini nel basso catanese.
Bisogna però dire che non tutte le città della provincia di Ragusa adottano questa sfumatura morfologica. Pronunciano regolarmente tutti i digrammi «ch»: Acate, di fondazione catanese e vicinissima al confine nisseno; Monterosso Almo, a causa della sua vicinanza con la provincia di Catania; e Scicli, che costituisce paradossalmente(1) un´isola alloglotta nella provincia.
Nel siciliano possiamo distinguere due diversi tipi di digramma «ch» (fricativa velare sorda): da una parte tutti quelli già presenti nella lingua italiana (es.: chiamare, chiudere, chiave, chiodo, etc.), che restano invariati nel siciliano (chiamari, chiuriri, chiavi, chiovu, etc.); dall´altra tutti quelli che derivano dal digramma «pi», che in siciliano ed in gran parte dei dialetti centro-meridionali suole mutarsi in «ch», come si può evincere, ad esempio, da:
piovere > c h i o v i r i
piangere > c h i a n c i r i
piazza > c h i a z z a
più > c h i ù
pieno > c h i n u
piombo > c h i u m m u
piano > c h i a n u
empire > i n c h i r i
adplanare (latino) > a c c h i a n a r i, etc.;
E fin qui non vi è alcunché di strano o anomalo. Va tenuto però presente che, nel passaggio dal Latino al siciliano, numerosi termini contenenti ad interno di parola il digramma «pi» sono soliti mutare questo non nel digramma «ch» bensì nel gruppo consonantico «cci». È, ad esempio, il caso di:
apium, i (il sedano) > a c c i u (talvolta anche "accia" nel catanese e in parte del siracusano, in quanto derivato dal neutro plurale latino ´apia´)
sapio (io so) > s a c c i u
sepia (la seppia) > s i c c i a;
Per non parlare di casi sporadici in cui anche la sola labiale sorda "p" tende a mutarsi nella velare sorda "c", come si può evincere da: spaventare > s c a n t a r i (con sincope; spa[ve]ntare > spantare > scantari).
Visto questo ultimo fenomeno fonetico che funge da spola, si può dedurre che per analogia con voci quali «acciu, sacciu, siccia», alcuni parlanti abbiano sentito la necessità di ridurre il digramma «ch» di tutte quelle parole inizianti per «pi» al solo digramma «ci», provocandone l´annullamento della consonante "h", cosicché:
piovere > c i o v i r i
piangere > c i a n c i r i
piazza > c i a z z a
più > c i ù
pieno > c i n u
piombo > c i u m m u
piano > c i a n u
empire > i n c i r i
adplanare (latino) > a c c i a n a r i, etc.
Sul fatto che non sia un errore linguistico non ci piove – o "nun ci ciovi", come direi io – anche perché non si spiegherebbero alcune voci parallele come "chianciri" e "cianciri", usate indifferentemente dai parlanti di una medesima città: è ciò che accade a Paternò e a Fiumefreddo di Sicilia, entrambe nel catanese, dove le due forme convivono tra loro nel parlato quotidiano. L´ "anomalia" – se così può essere definita – sta forse nel fatto che questa riduzione del digramma «ch» a «ci» è stata estesa per analogia anche a tutti quei termini che possedevano già la fricativa velare sorda «ch» in italiano. Per cui:
chiamare > c i a m a r i
acchiappare > a c c i a p p a r i
chiappa > c i a p p a ("´i ciappi" sono infatti un piatto tipico ragusano; sono pomodori secchi, successivamente conditi, che spaccati in due e messi ad asciugare al sole possono ricordare più o meno ed in veste ironica la forma di due chiappe)
chiudere > c i u r i r i
chiacchierare > c i a c c i a r i a r i
chiave > c i a v i
chiodo > c i u o v u, etc.;
Né su questa rara costruzione analogica mi sentirei tuttavia di tacere. C´è da dire che il termine "granchio", in quasi tutta la Sicilia, persino a Catania e in provincia, è pronunciato ´r a n c i u; i «´ranci ´i mari», infatti, sono i granchi un po´ dappertutto (granchio > aranciu > ´ranciu). Questo stesso termine, talvolta, è pronunciato anche nella forma completa senza aferesi, a r a n c i u.
Per non parlare di costruzioni analogiche ed improprie del digramma «ch», come dimostra il verbo v u n c h i a r i. Se si considera che nel siciliano il digramma «fi» è solito mutare in «ci» (es.: fiume > c i u m i, fiasco > c i a s c u, fiore > c i u r i, fianco > c i a n c u, fiato > c i a t u, etc.; nella maggior parte delle province, però, questi nomi prendono una "s" iniziale), il verbo "gonfiare", che contiene al suo interno il digramma «fi», dovrebbe divenire v u n c i a r i (gon-fi-are > vun-ci-ari), come pronunciato da noi ragusani e da chi parla come noi. Tuttavia, impropriamente ed analogamente ad altri verbi che contengono il digramma «ch», nelle altre parti dell´isola viene pronunciato v u n c h i a r i.
Ma tutto ciò è una caratteristica precipuamente Sicula? Assolutamente no. Sono simili al dialetto ragusano anche moltissimi dialetti del nord Italia che riducono il digramma «ch» al solo «ci». Tra questi vanno ricordati i dialetti veneti e i dialetti piemontesi (questi ultimi ormai poco parlati).
Quest´oggi ho voluto un po´ scherzare sulla questione, tuttavia col rigore linguistico e grammaticale che si conviene all´argomento, poiché ritengo doveroso per noi parlanti conoscere i motivi di pronunce differenti, o della presenza nel ragusano di termini e costrutti assenti in altri dialetti dell´isola. Spero di avervi incuriosito e di aver solleticato la mente e l´attenzione dei lettori. Alla prossima!
[1] Scicli – a differenza di Acate o Monterosso Almo, poste al confine dei territori rispettivamente nisseno e catanese – è inglobata e confinante con altre città ragusane, costituendo pertanto una vera e propria isola alloglotta.
Gianluca Vindigni
Bisogna però dire che non tutte le città della provincia di Ragusa adottano questa sfumatura morfologica. Pronunciano regolarmente tutti i digrammi «ch»: Acate, di fondazione catanese e vicinissima al confine nisseno; Monterosso Almo, a causa della sua vicinanza con la provincia di Catania; e Scicli, che costituisce paradossalmente(1) un´isola alloglotta nella provincia.
Nel siciliano possiamo distinguere due diversi tipi di digramma «ch» (fricativa velare sorda): da una parte tutti quelli già presenti nella lingua italiana (es.: chiamare, chiudere, chiave, chiodo, etc.), che restano invariati nel siciliano (chiamari, chiuriri, chiavi, chiovu, etc.); dall´altra tutti quelli che derivano dal digramma «pi», che in siciliano ed in gran parte dei dialetti centro-meridionali suole mutarsi in «ch», come si può evincere, ad esempio, da:
piovere > c h i o v i r i
piangere > c h i a n c i r i
piazza > c h i a z z a
più > c h i ù
pieno > c h i n u
piombo > c h i u m m u
piano > c h i a n u
empire > i n c h i r i
adplanare (latino) > a c c h i a n a r i, etc.;
E fin qui non vi è alcunché di strano o anomalo. Va tenuto però presente che, nel passaggio dal Latino al siciliano, numerosi termini contenenti ad interno di parola il digramma «pi» sono soliti mutare questo non nel digramma «ch» bensì nel gruppo consonantico «cci». È, ad esempio, il caso di:
apium, i (il sedano) > a c c i u (talvolta anche "accia" nel catanese e in parte del siracusano, in quanto derivato dal neutro plurale latino ´apia´)
sapio (io so) > s a c c i u
sepia (la seppia) > s i c c i a;
Per non parlare di casi sporadici in cui anche la sola labiale sorda "p" tende a mutarsi nella velare sorda "c", come si può evincere da: spaventare > s c a n t a r i (con sincope; spa[ve]ntare > spantare > scantari).
Visto questo ultimo fenomeno fonetico che funge da spola, si può dedurre che per analogia con voci quali «acciu, sacciu, siccia», alcuni parlanti abbiano sentito la necessità di ridurre il digramma «ch» di tutte quelle parole inizianti per «pi» al solo digramma «ci», provocandone l´annullamento della consonante "h", cosicché:
piovere > c i o v i r i
piangere > c i a n c i r i
piazza > c i a z z a
più > c i ù
pieno > c i n u
piombo > c i u m m u
piano > c i a n u
empire > i n c i r i
adplanare (latino) > a c c i a n a r i, etc.
Sul fatto che non sia un errore linguistico non ci piove – o "nun ci ciovi", come direi io – anche perché non si spiegherebbero alcune voci parallele come "chianciri" e "cianciri", usate indifferentemente dai parlanti di una medesima città: è ciò che accade a Paternò e a Fiumefreddo di Sicilia, entrambe nel catanese, dove le due forme convivono tra loro nel parlato quotidiano. L´ "anomalia" – se così può essere definita – sta forse nel fatto che questa riduzione del digramma «ch» a «ci» è stata estesa per analogia anche a tutti quei termini che possedevano già la fricativa velare sorda «ch» in italiano. Per cui:
chiamare > c i a m a r i
acchiappare > a c c i a p p a r i
chiappa > c i a p p a ("´i ciappi" sono infatti un piatto tipico ragusano; sono pomodori secchi, successivamente conditi, che spaccati in due e messi ad asciugare al sole possono ricordare più o meno ed in veste ironica la forma di due chiappe)
chiudere > c i u r i r i
chiacchierare > c i a c c i a r i a r i
chiave > c i a v i
chiodo > c i u o v u, etc.;
Né su questa rara costruzione analogica mi sentirei tuttavia di tacere. C´è da dire che il termine "granchio", in quasi tutta la Sicilia, persino a Catania e in provincia, è pronunciato ´r a n c i u; i «´ranci ´i mari», infatti, sono i granchi un po´ dappertutto (granchio > aranciu > ´ranciu). Questo stesso termine, talvolta, è pronunciato anche nella forma completa senza aferesi, a r a n c i u.
Per non parlare di costruzioni analogiche ed improprie del digramma «ch», come dimostra il verbo v u n c h i a r i. Se si considera che nel siciliano il digramma «fi» è solito mutare in «ci» (es.: fiume > c i u m i, fiasco > c i a s c u, fiore > c i u r i, fianco > c i a n c u, fiato > c i a t u, etc.; nella maggior parte delle province, però, questi nomi prendono una "s" iniziale), il verbo "gonfiare", che contiene al suo interno il digramma «fi», dovrebbe divenire v u n c i a r i (gon-fi-are > vun-ci-ari), come pronunciato da noi ragusani e da chi parla come noi. Tuttavia, impropriamente ed analogamente ad altri verbi che contengono il digramma «ch», nelle altre parti dell´isola viene pronunciato v u n c h i a r i.
Ma tutto ciò è una caratteristica precipuamente Sicula? Assolutamente no. Sono simili al dialetto ragusano anche moltissimi dialetti del nord Italia che riducono il digramma «ch» al solo «ci». Tra questi vanno ricordati i dialetti veneti e i dialetti piemontesi (questi ultimi ormai poco parlati).
Quest´oggi ho voluto un po´ scherzare sulla questione, tuttavia col rigore linguistico e grammaticale che si conviene all´argomento, poiché ritengo doveroso per noi parlanti conoscere i motivi di pronunce differenti, o della presenza nel ragusano di termini e costrutti assenti in altri dialetti dell´isola. Spero di avervi incuriosito e di aver solleticato la mente e l´attenzione dei lettori. Alla prossima!
[1] Scicli – a differenza di Acate o Monterosso Almo, poste al confine dei territori rispettivamente nisseno e catanese – è inglobata e confinante con altre città ragusane, costituendo pertanto una vera e propria isola alloglotta.
Gianluca Vindigni