" DIAVOLI E STREGHE NEGLI IBLEI " DI FRANCESCO EREDDIA
DELLE COSE DI SICILIA
Uomini e fatti senza tempo
DIAVOLI E STREGHE NEGLI IBLEI
Nel 1884 il barone chiaramontano (ma residente a Modica, dove fu docente nel locale ginnasio) Serafino Amabile Guastella pubblicava a Ragusa le “Parità e le storie morali dei nostri villani”. Si tratta di 28 ‘storie’: di ciascuna lo studioso ibleo indicava in calce il nome, il cognome e la località di residenza (sono rappresentate soprattutto Chiaramonte, Modica e Vittoria) del ‘cuntastorie’ di turno da cui raccoglieva il racconto.
La riscoperta di questo “demopsicologo” (come allora venivano chiamati gli studiosi delle tradizioni popolari) si deve a Leonardo Sciascia, che nel 1986 organizzò e presiedette a Chiaramonte Gulfi un convegno di studi dedicato alla figura e all’opera di questo “barone dei villani”. In quei racconti sfilano santi senza scrupoli, spesso ladri o comunque assassini, monaci furbi e materialisti, nobili e chierici legati da comuni interessi di potere economico e politico. Ha scritto Leonardo Sciascia: “C’è in essi un organico antivangelo: tutte le storie contengono crudi rovesciamenti della morale cristiana, prescrivono- avallati dai santi e dal Signore in persona – comportamenti inflessibilmente asociali e antisociali”.
Lu suli cu’ la luna po’ aggrissari,
iri pi ll’aria comu va lu vientu,
‘mmienzu li porti ciùsi trapassari,
l’uomu cciù forti addivintari lientu.
Amici stritti falli cutiddiari,
mariti e mogghi sciarri ogni mumientu.
Uomini e ddonni po’ fari ciuncàri,
dulura fuorti, e nunn’aviri abbientu
E’ in grado di provocare eclissi di sole e di luna, volteggiare per l’aria, entrare nelle case passando attraverso porte e finestre chiuse, rendere impotente l’uomo più virile, fare scorrere il sangue fra gli amici più intimi, accendere liti feroci fra moglie e marito, provocare paralisi e dolori da cui non c’è sollievo.
Questa entità misteriosa e potente, capace di prodigi contro le leggi della natura e di malefici irrimediabili per gli esseri umani, è il diavolo. Il quale – secondo il “cunto” della nostra contadina iblea, riportato appunto da Serafino Amabile Guastella, si trattava nientemeno che di Lucifero in persona (“lu Capu Cifru”) – nelle infuocate ore del meriggio canicolare, quando più acuto è lo stordimento e lo sfrenamento panico dei sensi (“l’ura r’a bbistialità”), aveva afferrato nelle campagne di Spaccaforno una capra selvatica, si era accoppiato bestialmente con quella e l’aveva ingravidata. Da quel mostruoso accoppiamento era nata una bambina, a cui l’Entità del male aveva tagliato il cordone ombelicale, infilzandolo con spilli e aghi (“ci ‘nfilau spignuli e aùgghi”) e legandolo con filo rosso, e le aveva concesso in dote quelle sue “setti virtù”, nonché la facoltà di poterle lasciare in eredità a quelle donne che avessero il coraggio di “fari ‘a quatraggèsima” in onore del diavolo. E questa quaresima consisteva nel “fari un piccatu murtali ppi quaranta jiorna cunzicutivi”: capacità che, a dire della cuntastorie (che era modicana, e dunque mossa da evidente campanilismo), “li fimmini di Spaccafurnu ‘n z’ a fannu scappari”.
In questo modo, secondo l‘ingenuo immaginario popolare, sarebbe nata la prima strega dell’area degli Iblei.
L’emergere dello spirito moderno nella nostra Europa occidentale si è accompagnato a una incredibile paura del diavolo. Si trattò certamente di un’idea immaginaria, ma il ruolo straordinario che tale idea ha giocato nella storia europea – nonché il suo tenace e persistente radicamento nella cultura occidentale dall’età medievale fino al secolo dei Lumi ed oltre – dimostra la sua presenza costante e ossessiva nell’immaginario collettivo degli uomini dei secoli passati.
Intorno al Mille si ebbe la prima grande “esplosione diabolica”: il diavolo è rappresentato, soprattutto nelle arti plastiche e pittoriche, con gli occhi rossi, i capelli e le ali di fuoco, intento a torturare e addirittura divorare gli esseri umani. Col diffondersi delle eresie medievali la paura del diavolo si trasformò in vera e propria angoscia e psicosi: nel 1233 lo stesso papa Gregorio IX pubblicò una bolla che descriveva come nelle riunioni di eretici in Germania Satana sarebbe apparso sotto le spoglie di un gatto nero, o di una rana, o di un rospo, o di un uomo coperto di pelo; e come la compagnia gli avrebbe dato baci osceni e poi si sarebbe abbandonata a orge e depravazioni.
Nel 1307 il re di Francia Filippo IV, che aveva già spogliato dei beni ed espulso gli ebrei, si mosse per distruggere il ricchissimo e potentissimo Ordine dei Cavalieri Templari: abili banchieri e finanzieri internazionali, la loro sede parigina era divenuta il centro del mercato mondiale del denaro. Furono accusati di essere adoratori del diavolo e di aver preso parte ad assemblee notturne in suo onore, durante le quali avvenivano orge etero ed omosessuali. La maggior parte dei cavalieri furono arsi vivi sul rogo, l’Ordine venne sciolto e il re di Francia ne incamerò le immense ricchezze.
A partire dalla seconda metà del Trecento, soprattutto dopo l’insorgere della terribile Peste Nera, dilagò e si affermò universalmente l’idea – che nel Cinquecento fu comune a cattolici, luterani e calvinisti - di un patto stretto da uomini e donne col diavolo per arrecare danni agli esseri umani, al bestiame e al raccolto.
Due teologi, Jakob Sprenger e Heinrich Krämer, compilarono un ponderoso trattato, il Malleus maleficarum (“Il martello delle streghe”) pubblicato nel 1487, che ebbe subito diverse ristampe e una larghissima diffusione in tutta l’Europa, divenendo una summa di tutta la letteratura demonologica. Nella prima parte di esso si dimostrava la reale esistenza delle streghe e la loro connivenza con Satana, e nella terza la procedura da seguirsi contro le malefiche donne. La parte più interessante è la seconda, dove venivano esaminati dettagliatamente i poteri delle streghe: esse inducevano le ragazze a compiere atti sessuali e si trasferivano con il corpo da un luogo a un altro; avevano rapporti sessuali anche contro natura con il diavolo; potevano rendere impotenti gli uomini e sterili le donne; erano in grado di provocare aborti e le malattie più gravi; offrivano i neonati al diavolo o li uccidevano per utilizzarne alcuni organi per i loro incantesimi.
A parte la misoginia di fondo (i due inquisitori stabilivano un legame diretto fra la stregoneria e il sesso femminile, per cui già nel titolo del trattato escludevano gli uomini) e l’evidentissima sessuofobia, c’è da sottolineare che il “volo notturno” delle streghe – oggetto prima d’allora di un dibattito infinito sulla sua realtà - era dai due affermato con una sconcertante fermezza che non ammetteva repliche. Da quel momento, e fino alla metà del Seicento, si aprì la spietata caccia alle streghe: poche voci di intellettuali osarono levarsi contro quell’interesse morboso e ambiguo per il “gioco di Diana” o sabba - le riunioni notturne delle streghe in cui avvenivano nefandezze d’ogni sorta (la parola non a caso rinvia all’ebraico shabbath, il sabato, giorno sacro della tradizione giudaica) -, contro la realtà dei voli notturni, delle metamorfosi e delle cavalcate fantastiche.
Tra il 1550 e il 1650 si ebbe la più intensa persecuzione della stregoneria, nella quale cattolici e protestanti furono accomunati dallo stesso spietato accanimento. I paesi e le regioni in cui, per motivi diversi, la Riforma e la Controriforma si affrontarono con la violenza più efferata furono quelli in cui fu più intensa la persecuzione della stregoneria. I cattolici e i protestanti gareggiarono quanto a crudeltà e nessun paese europeo fu risparmiato da questa tendenza generale, anche se la Francia, la Germania e la Scozia superarono di gran lunga gli altri per le dimensioni e la frequenza dei processi alle streghe.
Una volta le erbe e le piante fecero una supplica a Gesù Cristo. Dal momento che esse avevano la straordinaria capacità di guarire anche le malattie più gravi (“la virtù ranniusa di sanari tutt’i malatìi, e mmacari i ciù priculusi”), perché quel “patri amurusu”, visto che gli esseri umani morivano a migliaia (“li cristiani muorunu comu ‘i muschi”), non concedeva di insegnare loro stesse agli uomini tutte queste virtù miracolose? Questo non è possibile, rispose Gesù, perché così non morirebbe più nessuno e gli uomini si sbranerebbero a vicenda (“li cristiani si manciassiru l’unu ccu ll’autru”). Ma una cosa si poteva fare, aggiunse Cristo: far sì che di tanto in tanto qualche donnetta (“di tantu ‘ntantu quarchi fimminedda”) riuscisse a scoprire qualcuna di queste virtù (“arrivassi a scròpiri quarcuna di ‘sti vuosci virtù”). Ma questa donnetta invece di ricevere lodi (“ma scanciu d’avirini làusu”), non sarebbe stata creduta da nessuno (“nun sarà critta mancu d’e stessi so’ figghi”).
Il racconto di questa contadina di Chiaramonte dimostra come persistessero ancora alla fine dell’Ottocento credenze legate ai poteri magici e soprannaturali come delle piante e delle erbe, così anche delle fonti e persino delle pietre. E tali ‘donnette’ erano considerate streghe e fattucchiere tout court.
D’altro canto, il cristianesimo, che fin dalle origini era stato una religione propriamente urbana, nelle campagne aveva incontrato forti resistenze e tenaci opposizioni. Il contadino viveva in maniera diretta e intensa il rapporto con le forze della natura: l’acqua, la vita delle piante e la vita degli uomini erano per lui un’unica inscindibile cosa. Fra le masse rurali persistevano fin dall’Alto Medioevo credenze, riti e pratiche cultuali che, risalenti al periodo greco-romano, si erano poi amalgamate con il sapere magico degli ebrei. La cristianizzazione delle campagne era avvenuta il più delle volte attraverso semplici compromessi. Si erano sostituite le divinità agresti con Cristo, la Vergine o qualche santo, si era semplicemente cambiato il nome di feste e riti pagani legandoli formalmente alla liturgia cristiana, ma lasciandoli nella sostanza così com’erano. Era stata una cristianizzazione, dunque, formale e superficiale, che non era riuscita a spazzar via “lo spesso strato di credenze e culti legati alle vicissitudini dell’agricoltura e volti alla propiziazione della fertilità”. Magia e religione erano mescolate e giudicate perfettamente compatibili con le credenze e i riti della tradizione cristiana, così che l’adorazione di pietre e fonti conviveva tranquillamente, presso le masse rurali, con il culto dei santi protettori, dotati anch’essi di poteri taumaturgici, magici e soprannaturali.
In quei riti e in quelle superstizioni si riflettevano le ansie, i timori e le speranze delle comunità rurali, la cui buona salute e la prosperità dipendevano strettamente dalle vicissitudini della terra e dall’avvicendarsi delle stagioni. Quei culti ancestrali erano dunque per il mondo contadino l’unico modo per entrare in contatto con le forze del mondo vivente, per propiziarsele e farsele amiche: da questo dipendeva la sua stessa sopravvivenza. La religione cristiana, invece, era troppo intellettualistica: proiettava i destini dell’uomo in un altro mondo, in un’altra vita, e poco o nulla offriva per affrontare l’esistenza terrena, così precaria, così incerta per il contadino.
A cosa miravano, infatti, le pratiche cultuali delle centinaia di maghi e soprattutto di streghe di cui la Sicilia era piena? Gli utenti erano per lo più popolani poveri e analfabeti che volevano ritrovare oggetti smarriti, trovare tesori per cambiare condizione e uscire dalla miseria, avere aiuto nelle malattie, trovare un marito o recuperare un amante. Le fatture erano generalmente “ad amorem”, ma non mancavano quelle ad odium (provocare malattie e sofferenze d’ogni sorta) e addirittura quelle “ad mortem” (far morire esseri umani o bestiame).
C’erano nella tradizione siciliana le “donni di fora” e gli “homini di fora”. Le prime – dette pure “Donni di locu”, “Donni di casa”, “Dunzelli”, “Belli Signuri”, e nella contea di Modica “Patruni ‘i casa” o “Patruni ‘o luocu” – erano “esseri soprannaturali – ha scritto il Pitrè - un po’ streghe, un po’ fate, senza potersi discernere in che veramente differiscano dalle une e dalle altre”.
Queste streghe e questi maghi di fora erano esseri umani ritenuti in possesso di facoltà soprannaturali: capaci di impoverire o arricchire la gente, costoro vivono più sulla terra che a mare, preferendo abitare in case, anche poverissime, piuttosto che in giardini e boschi. Nella notte del giovedì lasciano il corpo e vagano invisibili, visitano le abitazioni, premiando quelle che trovano pulite e facendo dispetti dove c’è sporcizia e confusione. Se l’alba li sorprende, si trasformano in rospi e tali restano fino alla notte del venerdì, quando possono rientrare nel loro corpo.
Collegati con il sabba, il culto del diavolo e le messe nere, queste donne e questi uomini furono oggetto di persecuzioni da parte del Sant’Uffizio dal 1588 al 1676. Moltissimi dei condannati provenivano soprattutto dai centri più piccoli dell’area iblea.
Insomma, il mondo in cui vivevano e operavano maghi e streghe, donni e homini di fora ci appare quello degli oppressi e degli emarginati, di tutti coloro che vivevano nelle solitudini delle campagne o dei boschi e nei quartieri più miserabili dei centri urbani.
La cultura di questi operatori di magia e di stregoneria aveva come sua componente essenziale quella che oggi si chiama medicina alternativa, basata sulle virtù delle erbe e sulle terapie naturali, praticata soprattutto per le donne, a regolare i loro cicli mestruali, i parti, gli aborti. “La sua medicina – secondo il Michelet - è come lei, bassa, cioè popolare. La medicina bassa libera, perché ha accesso al corpo, e nel corpo, agli organi inferiori – sesso, seno – sbarrati alla percezione e vietati allo studio dalla censura sociale”. In fondo, la stregoneria era non poche volte l’ultima professione di donne avanti negli anni che, dopo aver fatto in gioventù le prostitute, si ritrovavano povere e sole ed erano costrette, per tirare avanti, a servirsi di mille espedienti: dal piccolo commercio semilecito all’accattonaggio, dalla medicina empirica all’ostetricia, dalla chirurgia abortiva alla cosmesi, dalla chiromanzia al mestiere di ruffiana.
E si ha l’impressione che a praticare magie, stregonerie e diavolerie, e a vendere speranze e illusioni ai reietti da Dio e dagli uomini, fossero proprio i più emarginati fra gli emarginati: gli ebrei, o meglio i discendenti di quei neofiti che nella prima metà del Cinquecento avevano subito le spietate persecuzioni messe in atto dal Sant’Uffizio.
FRANCESCO EREDDIA