I " MISTERI " DI CAMARINA " DI FRANCESCO EREDDIA
D’alte virtù e d’olimpiche corone
Il dolce fiore, dono di Psaumide
E dell’instancabile suo carro,
con lieto animo accogli, o figlia dell’Oceano.
Egli la tua città ricca di popolo
Fece più grande,
o ninfa Camarina, quando di sacrifici onore rese
ai sei duplici altari degli Dei
nelle feste grandissime d’Olimpia
e con quadriga e carro ed a cavallo
nei giochi gareggiò dei cinque giorni.
Nell’estate del 456 a.C. il camarinese Psaumide, facoltoso allevatore di cavalli, asini e muli, si reca a Olimpia, in Grecia, e là partecipa ai giochi quadriennali della 82esima olimpiade. Vince strepitosamente nel celéte, la corsa con le bighe trainate dalle mule e, rientrato in patria, viene accolto trionfalmente a Camarina con cortei e banchetti. Il poeta Pindaro (518-438 a.C.), greco di Tebe ma trapiantato ad Atene, compose allora due odi olimpiche o epinici (“canti per la vittoria”), delle quali una, la IV, venne cantata da un coro di ragazze camarinesi durante il corteo trionfale e l’altra, la V, nel corso del grandioso convito cittadino. Nella sua visione profetica e mistica della vita, Pindaro vedeva nelle vittorie dell’uomo il segno tangibile della presenza divina nelle cose umane, e durante il soggiorno siciliano (prima alla corte del tiranno Gerone di Siracusa e poi di Terone d’Agrigento) accentuò gli elementi mistici della sua religiosità e delle sua poesia, entrando in contatto con le comunità orfico-pitagoriche assai fiorenti
Dopo alterne vicende - che avevano visto i camarinesi, inclini quasi per disposizione naturale all’autonomia e alla libertà, in lotta ora con Siracusa ora con Gela – nel 461 a.C. aveva avuto inizio il periodo storico più prospero per Camarina. La sua importanza economica e politica - ben simboleggiata dalla vittoria olimpica di Psaumide del 456 - raggiunse l’apogeo proprio intorno alla metà del V secolo, al punto che, come ha calcolato lo storico tedesco K.J. Beloch , la città raggiunse i 15-20 mila abitanti e, con i sobborghi (principalmente quello di Scoglitti), circa 30 mila. Tanto grande fu in quel periodo il suo peso politico e militare che, quando nell’ambito della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta avvenne la spedizione ateniese in Sicilia (415-13), i Siracusani, alleati di Sparta, e gli Ateniesi si contesero l’intervento e il sostegno di Camarina. Secondo lo storico greco Tucidide, la nostra colonia assunse dapprima un atteggiamento neutrale, ma poi, profilandosi sempre più certa una vittoria dei Siracusani, i camarinesi inviarono a Siracusa un corpo di spedizione costituito da 500 opliti, 300 lanciatori di giavellotti e 300 arcieri.
Il culto più diffuso - che appare, in tutta la Sicilia, esclusivo di Camarina - era quello di Atena , dea protettrice della città con il suo tempio sulla sommità del promontorio. Molto diffuso era anche il culto di Demetra e Core (Cerere e Proserpina per i latini). Il tempio - che sorgeva fuori dalle mura dell’abitato e che in età bizantina venne trasformato in una chiesa dedicata alla Madonna - costituiva un luogo di contatto fra la cultura greca e quella indigena: essendo queste dee due divinità agrarie (“spiriti del grano”, secondo la definizione degli antropologi) associate ai riti della fecondità, esse potevano essere facilmente assimilate ad analoghi riti e divinità delle religioni indigene. Nel mito, tutto siciliano, del “ratto di Proserpina”, infatti, è adombrato tutto il ciclo del grano, dalla semina (simboleggiata da Core-Proserpina, figlia di Demetra-Cerere, costretta a vivere per sei mesi all’anno sotto terra) alla lunga e lenta incubazione (Demetra-Cerere che cerca la figlia per tutta la terra), fino alla germinazione, alla maturazione delle spighe e al raccolto. La madre rappresentava la fertilità della terra e l’abbondanza delle messi, colei che, introducendo gli uomini ai segreti dell’agricoltura, aveva garantito loro l’alimentazione basilare e la vita. I riti in onore di Demetra e Core si svolgevano a Camarina a metà agosto con processioni e fiaccolate notturne, come avveniva a Eleusi, piccolo borgo a circa 20 km da Atene, dove ogni anno si celebravano i cosiddetti “misteri eleusini” con una lunga processione che partiva da Atene e lungo la Via Sacra innalzava inni a Demetra e Dioniso (dio della vite e, più in generale, della morte e resurrezione della vegetazione). Al tramonto, giunti a Eleusi, si svolgeva una veglia notturna tra fiaccole, canti e danze, fino alle prime luci dell’alba.
Successivamente il culto per Demetra fu trasferito alla Vergine con la festa della “Madonna di Cammarana”, celebrata fino ai giorni nostri a Scoglitti il giorno di Ferragosto.
Nel corso del IV secolo, invece, Camarina appare dalle fonti storiche nient’altro che una modesta alleata di Siracusa e del suo tiranno, Dionigi I. In questa fase di innegabile decadenza cominciarono a diffondersi i “misteri orfici”.
La tradizione, infatti, parla di un Orfeo (probabilmente una sorta di nome d’arte), poeta epico di Camarina, al quale viene attribuito un poemetto intitolato Discesa all’Ade. Certo è che, in un momento storico di declino dopo i fasti del glorioso passato, poteva aver facilmente presa sulla popolazione camarinese una dottrina, come quella orfica, che si rifaceva al mitico poeta Orfeo, che grazie alle sue virtù poetiche aveva potuto scendere nell’Ade per cercare di sottrarre alla morte la moglie Euridice. Quella dottrina, organizzatasi in forme associazionistiche cultuali, proponeva all’uomo una via di salvezza che, attraverso la purificazione ottenuta col distacco da tutto ciò che nella vita è materiale (potere, ricchezza, etc.), conduce alla beatitudine celeste e al ricongiungimento dell’anima, purificata dal peso carnale, con la sua origine celeste. Elementi essenziali erano in questa dottrina i simboli dell’acqua e delle sorgenti: l’acqua lustrale era simbolo di purificazione, come lo sarà peraltro anche nei riti cristiani. In una città che fin nel nome si richiamava a una ninfa fluviale o di sorgente (la “ninfa Camarina” invocata da Pindaro nella sua ode), era inevitabile che gli strati sociali più colpiti da quella profonda crisi (politica, economica e spirituale) si rivolgessero a una religione sommersa e “popolare” capace di offrire la speranza di un superamento futuro di quella precaria e lacerante realtà.
Le idee di base della dottrina orfica sono state ricostruite attraverso le laminette d’oro appese al collo dei defunti, che servivano da viatico per assicurare al morto il successo nel viaggio ultramondano e la difesa contro le potenze infernali. Queste laminette con su incise delle formule rituali sono state trovate prevalentemente nell’Italia meridionale, area con la quale Camarina intratteneva fin dal V secolo rapporti commerciali esportandovi soprattutto il suo vino “Mesopotamium”, antenato dell’odierno “Cerasuolo di Vittoria”. In quelle lamine il defunto viene paragonato a un agnello sacrificale (elemento simbolico di derivazione dionisiaca, che qualche secolo dopo ritroveremo nel Cristianesimo), e viene invocata Mnemosyne, la dea della Memoria, perché aiuti l’anima a ricordare, dopo la reincarnazione, le vite precedenti.
Appartiene a questo clima politico e culturale camarinese un’iscrizione funeraria di calcarenite rinvenuta a Passo Marinaro, studiata, datata, decifrata e tradotta da un insigne grecista vittoriese, Virgilio Lavore. L’epigrafe è dedicata a una donna morta in giovane età, Ippò, il cui nome richiama una ninfa fluviale o di sorgente. L’iscrizione suona così nella suggestiva traduzione poetica di Virgilio Lavore: “Ippò, che onorò la Saggezza e venerò la Giustizia, / Ippò, nel fiore degli anni, il respiro lasciò della vita”. “Non è improbabile - afferma Lavore nei suoi studi di ricostruzione - che la mitica Ippò venisse considerata una ninfa fluviale o, meglio, una ninfa di sorgente e, come tale, fosse accolta nella toponomastica camarinese, a dar nome a una delle numerose fonti che convogliano le loro acque nell’alveo del fiume di Camarina. E’ solo un’ipotesi, ma se l’esistenza di tale nome trovasse un concreto e documentato riscontro topografico, non sarebbe allora illegittimo supporre che nell’olimpo camarinese la ninfa Ippò avesse un culto e, per conseguenza, non poche donne, a Camarina, ne portassero il nome. Ciò renderebbe meno sorprendente il fatto che, in una zona così povera di reperti sepolcrali, ce ne sia pervenuto proprio uno in cui il nome della defunta richiama inevitabilmente il nome del fiume Ippari.”.
A queste acute e profonde osservazioni di Lavore, e alle altre relative alle virtù orfiche della “Saggezza” e della “Giustizia” e agli ambienti orfici camarinesi, ci permettiamo di aggiungere che nelle laminette d’oro, di cui prima si è detto, frequenti sono i simboli dell’acqua e delle sorgenti. In una di esse, ad es., rinvenuta in Calabria e attribuita al IV sec. a.C., c’è la seguente iscrizione: “E troverai a sinistra delle Case di Ade una fonte / e ad essa vicino un bianco cipresso; / a questa sorgente guardati dall’accostarti. / Ne troverai un’altra, di Mnemosyne del lago / fredda acqua scorrente…”. L’acqua lustrale, simbolo di purificazione, era un elemento essenziale nei riti orfici, come lo sarà peraltro in quelli cristiani. Si tratta di indizi - frammentari, labili ma assai suggestivi - di una religiosità “popolare” sommersa che, in un momento di profonda crisi collettiva (politica, economica e spirituale) dell’intera comunità camarinese, offriva alla gente la speranza di un aldilà di oblio e di pace.
FRANCESCO EREDDIA
Il dolce fiore, dono di Psaumide
E dell’instancabile suo carro,
con lieto animo accogli, o figlia dell’Oceano.
Egli la tua città ricca di popolo
Fece più grande,
o ninfa Camarina, quando di sacrifici onore rese
ai sei duplici altari degli Dei
nelle feste grandissime d’Olimpia
e con quadriga e carro ed a cavallo
nei giochi gareggiò dei cinque giorni.
Nell’estate del 456 a.C. il camarinese Psaumide, facoltoso allevatore di cavalli, asini e muli, si reca a Olimpia, in Grecia, e là partecipa ai giochi quadriennali della 82esima olimpiade. Vince strepitosamente nel celéte, la corsa con le bighe trainate dalle mule e, rientrato in patria, viene accolto trionfalmente a Camarina con cortei e banchetti. Il poeta Pindaro (518-438 a.C.), greco di Tebe ma trapiantato ad Atene, compose allora due odi olimpiche o epinici (“canti per la vittoria”), delle quali una, la IV, venne cantata da un coro di ragazze camarinesi durante il corteo trionfale e l’altra, la V, nel corso del grandioso convito cittadino. Nella sua visione profetica e mistica della vita, Pindaro vedeva nelle vittorie dell’uomo il segno tangibile della presenza divina nelle cose umane, e durante il soggiorno siciliano (prima alla corte del tiranno Gerone di Siracusa e poi di Terone d’Agrigento) accentuò gli elementi mistici della sua religiosità e delle sua poesia, entrando in contatto con le comunità orfico-pitagoriche assai fiorenti
Dopo alterne vicende - che avevano visto i camarinesi, inclini quasi per disposizione naturale all’autonomia e alla libertà, in lotta ora con Siracusa ora con Gela – nel 461 a.C. aveva avuto inizio il periodo storico più prospero per Camarina. La sua importanza economica e politica - ben simboleggiata dalla vittoria olimpica di Psaumide del 456 - raggiunse l’apogeo proprio intorno alla metà del V secolo, al punto che, come ha calcolato lo storico tedesco K.J. Beloch , la città raggiunse i 15-20 mila abitanti e, con i sobborghi (principalmente quello di Scoglitti), circa 30 mila. Tanto grande fu in quel periodo il suo peso politico e militare che, quando nell’ambito della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta avvenne la spedizione ateniese in Sicilia (415-13), i Siracusani, alleati di Sparta, e gli Ateniesi si contesero l’intervento e il sostegno di Camarina. Secondo lo storico greco Tucidide, la nostra colonia assunse dapprima un atteggiamento neutrale, ma poi, profilandosi sempre più certa una vittoria dei Siracusani, i camarinesi inviarono a Siracusa un corpo di spedizione costituito da 500 opliti, 300 lanciatori di giavellotti e 300 arcieri.
Il culto più diffuso - che appare, in tutta la Sicilia, esclusivo di Camarina - era quello di Atena , dea protettrice della città con il suo tempio sulla sommità del promontorio. Molto diffuso era anche il culto di Demetra e Core (Cerere e Proserpina per i latini). Il tempio - che sorgeva fuori dalle mura dell’abitato e che in età bizantina venne trasformato in una chiesa dedicata alla Madonna - costituiva un luogo di contatto fra la cultura greca e quella indigena: essendo queste dee due divinità agrarie (“spiriti del grano”, secondo la definizione degli antropologi) associate ai riti della fecondità, esse potevano essere facilmente assimilate ad analoghi riti e divinità delle religioni indigene. Nel mito, tutto siciliano, del “ratto di Proserpina”, infatti, è adombrato tutto il ciclo del grano, dalla semina (simboleggiata da Core-Proserpina, figlia di Demetra-Cerere, costretta a vivere per sei mesi all’anno sotto terra) alla lunga e lenta incubazione (Demetra-Cerere che cerca la figlia per tutta la terra), fino alla germinazione, alla maturazione delle spighe e al raccolto. La madre rappresentava la fertilità della terra e l’abbondanza delle messi, colei che, introducendo gli uomini ai segreti dell’agricoltura, aveva garantito loro l’alimentazione basilare e la vita. I riti in onore di Demetra e Core si svolgevano a Camarina a metà agosto con processioni e fiaccolate notturne, come avveniva a Eleusi, piccolo borgo a circa 20 km da Atene, dove ogni anno si celebravano i cosiddetti “misteri eleusini” con una lunga processione che partiva da Atene e lungo la Via Sacra innalzava inni a Demetra e Dioniso (dio della vite e, più in generale, della morte e resurrezione della vegetazione). Al tramonto, giunti a Eleusi, si svolgeva una veglia notturna tra fiaccole, canti e danze, fino alle prime luci dell’alba.
Successivamente il culto per Demetra fu trasferito alla Vergine con la festa della “Madonna di Cammarana”, celebrata fino ai giorni nostri a Scoglitti il giorno di Ferragosto.
Nel corso del IV secolo, invece, Camarina appare dalle fonti storiche nient’altro che una modesta alleata di Siracusa e del suo tiranno, Dionigi I. In questa fase di innegabile decadenza cominciarono a diffondersi i “misteri orfici”.
La tradizione, infatti, parla di un Orfeo (probabilmente una sorta di nome d’arte), poeta epico di Camarina, al quale viene attribuito un poemetto intitolato Discesa all’Ade. Certo è che, in un momento storico di declino dopo i fasti del glorioso passato, poteva aver facilmente presa sulla popolazione camarinese una dottrina, come quella orfica, che si rifaceva al mitico poeta Orfeo, che grazie alle sue virtù poetiche aveva potuto scendere nell’Ade per cercare di sottrarre alla morte la moglie Euridice. Quella dottrina, organizzatasi in forme associazionistiche cultuali, proponeva all’uomo una via di salvezza che, attraverso la purificazione ottenuta col distacco da tutto ciò che nella vita è materiale (potere, ricchezza, etc.), conduce alla beatitudine celeste e al ricongiungimento dell’anima, purificata dal peso carnale, con la sua origine celeste. Elementi essenziali erano in questa dottrina i simboli dell’acqua e delle sorgenti: l’acqua lustrale era simbolo di purificazione, come lo sarà peraltro anche nei riti cristiani. In una città che fin nel nome si richiamava a una ninfa fluviale o di sorgente (la “ninfa Camarina” invocata da Pindaro nella sua ode), era inevitabile che gli strati sociali più colpiti da quella profonda crisi (politica, economica e spirituale) si rivolgessero a una religione sommersa e “popolare” capace di offrire la speranza di un superamento futuro di quella precaria e lacerante realtà.
Le idee di base della dottrina orfica sono state ricostruite attraverso le laminette d’oro appese al collo dei defunti, che servivano da viatico per assicurare al morto il successo nel viaggio ultramondano e la difesa contro le potenze infernali. Queste laminette con su incise delle formule rituali sono state trovate prevalentemente nell’Italia meridionale, area con la quale Camarina intratteneva fin dal V secolo rapporti commerciali esportandovi soprattutto il suo vino “Mesopotamium”, antenato dell’odierno “Cerasuolo di Vittoria”. In quelle lamine il defunto viene paragonato a un agnello sacrificale (elemento simbolico di derivazione dionisiaca, che qualche secolo dopo ritroveremo nel Cristianesimo), e viene invocata Mnemosyne, la dea della Memoria, perché aiuti l’anima a ricordare, dopo la reincarnazione, le vite precedenti.
Appartiene a questo clima politico e culturale camarinese un’iscrizione funeraria di calcarenite rinvenuta a Passo Marinaro, studiata, datata, decifrata e tradotta da un insigne grecista vittoriese, Virgilio Lavore. L’epigrafe è dedicata a una donna morta in giovane età, Ippò, il cui nome richiama una ninfa fluviale o di sorgente. L’iscrizione suona così nella suggestiva traduzione poetica di Virgilio Lavore: “Ippò, che onorò la Saggezza e venerò la Giustizia, / Ippò, nel fiore degli anni, il respiro lasciò della vita”. “Non è improbabile - afferma Lavore nei suoi studi di ricostruzione - che la mitica Ippò venisse considerata una ninfa fluviale o, meglio, una ninfa di sorgente e, come tale, fosse accolta nella toponomastica camarinese, a dar nome a una delle numerose fonti che convogliano le loro acque nell’alveo del fiume di Camarina. E’ solo un’ipotesi, ma se l’esistenza di tale nome trovasse un concreto e documentato riscontro topografico, non sarebbe allora illegittimo supporre che nell’olimpo camarinese la ninfa Ippò avesse un culto e, per conseguenza, non poche donne, a Camarina, ne portassero il nome. Ciò renderebbe meno sorprendente il fatto che, in una zona così povera di reperti sepolcrali, ce ne sia pervenuto proprio uno in cui il nome della defunta richiama inevitabilmente il nome del fiume Ippari.”.
A queste acute e profonde osservazioni di Lavore, e alle altre relative alle virtù orfiche della “Saggezza” e della “Giustizia” e agli ambienti orfici camarinesi, ci permettiamo di aggiungere che nelle laminette d’oro, di cui prima si è detto, frequenti sono i simboli dell’acqua e delle sorgenti. In una di esse, ad es., rinvenuta in Calabria e attribuita al IV sec. a.C., c’è la seguente iscrizione: “E troverai a sinistra delle Case di Ade una fonte / e ad essa vicino un bianco cipresso; / a questa sorgente guardati dall’accostarti. / Ne troverai un’altra, di Mnemosyne del lago / fredda acqua scorrente…”. L’acqua lustrale, simbolo di purificazione, era un elemento essenziale nei riti orfici, come lo sarà peraltro in quelli cristiani. Si tratta di indizi - frammentari, labili ma assai suggestivi - di una religiosità “popolare” sommersa che, in un momento di profonda crisi collettiva (politica, economica e spirituale) dell’intera comunità camarinese, offriva alla gente la speranza di un aldilà di oblio e di pace.
FRANCESCO EREDDIA