" LA CONTESSA VITTORIA COLONNA CONTRO I “FAMILIARI” DEL SANT’UFFIZIO " dDI FRANCESCO EREDDIA
“Donna Vittoria Colonna, madre, balia e tutrice di don Joanni Alphonso Enriquez de Cabrera, Grande Almirante de Castiglia, duca de Medina de Rioseco, Conte de Modica, dice che tiene le sue gabelle in detto Contato et terre et, perché in detto Contato vi sono diversi familiari del Sancto Officio, s’ottennero lettere di questo Tribunale, date in Palermo a 24 de settembre 7^ Indiz. 1578, che li familiari del Sancto Officio pagassero le gabelle conforme l’altri, cossì come è giusto et non si può denegar et deve esser disposto per la salvaguardia di questo Tribunale. Et perché dette lettere sono antique, supplica a Vostra Ill.ma et Rev.ma sia servita ordinare che si faccino lettere observatoriali. […]
“Le quali gabelle sono le gabelle de Caxia et Dohana, Arco de cottone et altre gabelle che giornalmente pagano li citadini et habitatori del detto Contato al detto Don Joanni Alphonso conte, et non s’è mai inteso che li familiari di questo Sancto Officio siano franchi di gabella.”.
Il 16 febbraio 1604 la contessa Vittoria Colonna, dietro sollecitazione del Conservatore del Patrimonio Scipione Celestre, inviava l’ennesima protesta al tribunale dell’Inquisizione.
“Li familiari del Sancto Officio” si rifiutavano di pagare le gabelle, e questa evasione fiscale procurava danni economici non indifferenti alle già precarie casse comitali. Poiché, sottolinea l’istanza, fin dal 1578 era stato stabilito dal tribunale dell’Inquisizione (su pressione e intimazione del viceré Marcantonio Colonna, aggiungiamo noi) che “li familiari del Sancto Officio pagassero le gabelle conforme l’altri”, la contessa chiede senza tentennamenti “che si faccino lettere observatoriali”, che cioè quel Tribunale emani un’ordinanza finalizzata all’osservanza di quelle “antique” disposizioni, affinché anche i familiari del Sant’Uffizio paghino, com’è loro dovere, le “gabelle che giornalmente pagano li citatini et habitatori del detto Contato al detto Don Joanni Alphonso conte”.
“Siamo stati informati da parte di Vittoria Colonna, madre balia et tutrice del conte di Modica, che contra li suoi Stati di Modica, Chiaramonte, Monterosso, Xicle et Ragosa, Alcamo, Xaccamo et Calatafime et altri beni e feghi di esso Conte, vi sono state causate diverse exationi per questo Tribunale, tanto ad instanza di Bartolo di Palermo nostro creato et d’altri creati d’officiali salariati di questo Tribunale, como cessionarij o pretensi donatarij di diverse persone. Tutto perché pretendino havere la voce attiva et passiva et pretendino molestare seu hano molestato diverse persone et vassalli di esso conte, con tutto che non siano di questo Sancto Officii. Il che si pretende che non si possia fare”.
Un elemento che, pur nel solco di una fedele continuità, sembra imprimere una nota di diversità nell’azione di governo di Vittoria Colonna rispetto a quella del defunto marito, è riconducibile all’impressione di una opposizione più decisa da parte della “madre balia et tutrice del Conte di Modica” allo strapotere e agli abusi della Santa Inquisizione. Nel registro della cancelleria comitale, infatti, si infittiscono le prese di posizione e le proteste contro il Sant’Uffizio a partire dal 1601, subito dopo la conclusione cioè del lungo iter burocratico del Poder (cioè, il passaggio dei poteri alla vedova) , siglato nel novembre del 1600.
In questa direzione ci sembra giusto affermare che Vittoria Colonna aveva come punto di riferimento il viceregnato del padre Marcantonio che, nella sua visione laica di uno Stato che si riappropriasse delle proprie prerogative contro le spinte centrifughe e autonomistiche dei baroni, con tanta decisione e fermezza si era posto contro il malcostume dei “familiari” dell’Inquisizione, le loro estorsioni e prepotenze, il loro malaffare di mafiosi ante litteram. Nei sette anni del vice regnato paterno (1577-84) Vittoria si trovava con tutta la famiglia in Sicilia, e dunque ebbe modo di osservare da vicino le angherie e i soprusi esercitati dai “dipendenti” del famigerato Tribunale, nonché i danni economici che, con i loro taglieggiamenti e la spregiudicata politica economica, procuravano ai nobili che non si schieravano dalla loro parte. Senza dire che Vittoria sapeva benissimo che l’Inquisizione era stata, come si è visto, responsabile della fine politica e fors’anche della morte stessa del padre. Né si potrebbe pensare che in queste controversie la signora non avesse tutto il sostegno, se non anche i consigli e gli indirizzi, del suo Conservatore del Patrimonio Comitale, Scipione Celestre, al quale appunto era stato affidato il compito di conservare e accrescere tutti quei beni alquanto dissestati.
Nella lettera sopra riportata Vittoria Colonna lamenta che non solo gli “officiali salariati di questo Tribunale”, e cioè i cosiddetti “familiari”, ma addirittura anche i loro “creati”, cioè i loro servi, galoppini e tuttofare, taglieggiavano con “diverse exationi… diverse persone et vassalli di esso Conte”. E questo, concludeva la signora a nome del minore Giovanni Alfonso, si sostiene che non sia ammissibile (“Il che si pretendi che non si possia fare”). Si trattava, detto in termini moderni, di vere e proprie richieste di tangenti fatte a tanti cittadini della contea per godere della protezione di questa gente. A questo punto gli “Inquisitores adversus hereticam pravitatem et Apostasiam” non possono fare altro che dare esito alla protesta della contessa e ingiungere a questi familiari e ai loro creati di desistere da queste azioni di taglieggiamento sotto pena addirittura della scomunica (“sotto pena di onze duecento d’applicarsi per ogni uno al fisco di questo Sancto Officio et di scomunica”).
Il provvedimento inquisitoriale è firmato “El dottor Paramo”. Divenuto grande Inquisitore di Sicilia nel 1585, subito dopo la morte di Marcantonio Colonna, Ludovico Paramo rimase in carica per ventitré anni fino alla morte avvenuta nel 1608. “Nulla tralasciò – scrisse lo storico siciliano C.A. Garugi - per accrescere la sua giurisdizione a dispetto dei quattro Viceré che si susseguirono nel governo dell’isola: Don Diego Henriquez de Guzman conte d’Albadalista, Don Arrigo Guzman conte di Olivares, Don Bernardino de Cardines duca di Maqueda e don Lorenzo Suarez de Figueroa duca di Feria”.
Proprio in quegli anni diventava viceré il Duca di Feria, molto legato agli Enriquez Cabrera e grande ammiratore dell’energica azione di governo di Marcantonio Colonna. Il Paramo negli anni precedenti aveva esteso a dismisura il numero degli ufficiali e familiari del Sant’Uffizio e, attraverso questi funzionari e i loro sgherri, era arrivato a creare una polizia privata e un esercito di armati con cui aveva occupato ruoli e funzioni che appartenevano allo Stato. Mentre due suoi stretti collaboratori, gli inquisitori Olloqui e Llanes, puntavano a ottenere per tutti i dipendenti del tribunale dell’Inquisizione l’esenzione da ogni tassa dovuta al fisco statale.
Il Duca di Fera riuscì a portare il numero dei familiari a quello stabilito al tempo di Marcantonio Colonna, tentando così di arginare la piena inquisitoriale che inondava e sommergeva le fondamenta dello Stato.
Francesco Ereddia
“Le quali gabelle sono le gabelle de Caxia et Dohana, Arco de cottone et altre gabelle che giornalmente pagano li citadini et habitatori del detto Contato al detto Don Joanni Alphonso conte, et non s’è mai inteso che li familiari di questo Sancto Officio siano franchi di gabella.”.
Il 16 febbraio 1604 la contessa Vittoria Colonna, dietro sollecitazione del Conservatore del Patrimonio Scipione Celestre, inviava l’ennesima protesta al tribunale dell’Inquisizione.
“Li familiari del Sancto Officio” si rifiutavano di pagare le gabelle, e questa evasione fiscale procurava danni economici non indifferenti alle già precarie casse comitali. Poiché, sottolinea l’istanza, fin dal 1578 era stato stabilito dal tribunale dell’Inquisizione (su pressione e intimazione del viceré Marcantonio Colonna, aggiungiamo noi) che “li familiari del Sancto Officio pagassero le gabelle conforme l’altri”, la contessa chiede senza tentennamenti “che si faccino lettere observatoriali”, che cioè quel Tribunale emani un’ordinanza finalizzata all’osservanza di quelle “antique” disposizioni, affinché anche i familiari del Sant’Uffizio paghino, com’è loro dovere, le “gabelle che giornalmente pagano li citatini et habitatori del detto Contato al detto Don Joanni Alphonso conte”.
“Siamo stati informati da parte di Vittoria Colonna, madre balia et tutrice del conte di Modica, che contra li suoi Stati di Modica, Chiaramonte, Monterosso, Xicle et Ragosa, Alcamo, Xaccamo et Calatafime et altri beni e feghi di esso Conte, vi sono state causate diverse exationi per questo Tribunale, tanto ad instanza di Bartolo di Palermo nostro creato et d’altri creati d’officiali salariati di questo Tribunale, como cessionarij o pretensi donatarij di diverse persone. Tutto perché pretendino havere la voce attiva et passiva et pretendino molestare seu hano molestato diverse persone et vassalli di esso conte, con tutto che non siano di questo Sancto Officii. Il che si pretende che non si possia fare”.
Un elemento che, pur nel solco di una fedele continuità, sembra imprimere una nota di diversità nell’azione di governo di Vittoria Colonna rispetto a quella del defunto marito, è riconducibile all’impressione di una opposizione più decisa da parte della “madre balia et tutrice del Conte di Modica” allo strapotere e agli abusi della Santa Inquisizione. Nel registro della cancelleria comitale, infatti, si infittiscono le prese di posizione e le proteste contro il Sant’Uffizio a partire dal 1601, subito dopo la conclusione cioè del lungo iter burocratico del Poder (cioè, il passaggio dei poteri alla vedova) , siglato nel novembre del 1600.
In questa direzione ci sembra giusto affermare che Vittoria Colonna aveva come punto di riferimento il viceregnato del padre Marcantonio che, nella sua visione laica di uno Stato che si riappropriasse delle proprie prerogative contro le spinte centrifughe e autonomistiche dei baroni, con tanta decisione e fermezza si era posto contro il malcostume dei “familiari” dell’Inquisizione, le loro estorsioni e prepotenze, il loro malaffare di mafiosi ante litteram. Nei sette anni del vice regnato paterno (1577-84) Vittoria si trovava con tutta la famiglia in Sicilia, e dunque ebbe modo di osservare da vicino le angherie e i soprusi esercitati dai “dipendenti” del famigerato Tribunale, nonché i danni economici che, con i loro taglieggiamenti e la spregiudicata politica economica, procuravano ai nobili che non si schieravano dalla loro parte. Senza dire che Vittoria sapeva benissimo che l’Inquisizione era stata, come si è visto, responsabile della fine politica e fors’anche della morte stessa del padre. Né si potrebbe pensare che in queste controversie la signora non avesse tutto il sostegno, se non anche i consigli e gli indirizzi, del suo Conservatore del Patrimonio Comitale, Scipione Celestre, al quale appunto era stato affidato il compito di conservare e accrescere tutti quei beni alquanto dissestati.
Nella lettera sopra riportata Vittoria Colonna lamenta che non solo gli “officiali salariati di questo Tribunale”, e cioè i cosiddetti “familiari”, ma addirittura anche i loro “creati”, cioè i loro servi, galoppini e tuttofare, taglieggiavano con “diverse exationi… diverse persone et vassalli di esso Conte”. E questo, concludeva la signora a nome del minore Giovanni Alfonso, si sostiene che non sia ammissibile (“Il che si pretendi che non si possia fare”). Si trattava, detto in termini moderni, di vere e proprie richieste di tangenti fatte a tanti cittadini della contea per godere della protezione di questa gente. A questo punto gli “Inquisitores adversus hereticam pravitatem et Apostasiam” non possono fare altro che dare esito alla protesta della contessa e ingiungere a questi familiari e ai loro creati di desistere da queste azioni di taglieggiamento sotto pena addirittura della scomunica (“sotto pena di onze duecento d’applicarsi per ogni uno al fisco di questo Sancto Officio et di scomunica”).
Il provvedimento inquisitoriale è firmato “El dottor Paramo”. Divenuto grande Inquisitore di Sicilia nel 1585, subito dopo la morte di Marcantonio Colonna, Ludovico Paramo rimase in carica per ventitré anni fino alla morte avvenuta nel 1608. “Nulla tralasciò – scrisse lo storico siciliano C.A. Garugi - per accrescere la sua giurisdizione a dispetto dei quattro Viceré che si susseguirono nel governo dell’isola: Don Diego Henriquez de Guzman conte d’Albadalista, Don Arrigo Guzman conte di Olivares, Don Bernardino de Cardines duca di Maqueda e don Lorenzo Suarez de Figueroa duca di Feria”.
Proprio in quegli anni diventava viceré il Duca di Feria, molto legato agli Enriquez Cabrera e grande ammiratore dell’energica azione di governo di Marcantonio Colonna. Il Paramo negli anni precedenti aveva esteso a dismisura il numero degli ufficiali e familiari del Sant’Uffizio e, attraverso questi funzionari e i loro sgherri, era arrivato a creare una polizia privata e un esercito di armati con cui aveva occupato ruoli e funzioni che appartenevano allo Stato. Mentre due suoi stretti collaboratori, gli inquisitori Olloqui e Llanes, puntavano a ottenere per tutti i dipendenti del tribunale dell’Inquisizione l’esenzione da ogni tassa dovuta al fisco statale.
Il Duca di Fera riuscì a portare il numero dei familiari a quello stabilito al tempo di Marcantonio Colonna, tentando così di arginare la piena inquisitoriale che inondava e sommergeva le fondamenta dello Stato.
Francesco Ereddia