LA RUBRICA DI KAIROS - " TERRORISMO E ALTRI TERRORI: COSA CI SUCCEDE ? " DELLA DOTT/SSA STELLA MORANA
Terrorismo e altri terrori: cosa ci succede?
Attacchi terroristici, esplosioni, uccisioni, torture. Si tratta di eventi che - a partire da quel famoso 11 settembre 2001 ma ancor di più negli ultimi anni con i fatti più recenti – hanno scosso l’opinione pubblica e l’emotività delle persone. Basti pensare che la paura di eventuali attacchi terroristici, sembri essere tra le prime angosce a condizionare l’immaginario collettivo. Mi viene in mente la prima frase del presidente Roosevelt, pronunciata nel 1932 nel suo primo discorso da presidente: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura». Certo il contesto era diverso - arrivava alla Casa Bianca dopo la crisi del ’29, dopo la Grande Depressione e parlava ad un paese mai così povero e disperato, scosso nelle sue certezze più radicate – ma la frase sembra apparire tutt’altro che superata.
Qual è l’obiettivo del terrorismo?
Certamente (o per lo meno nella maggior parte dei casi ) non è l’uccisione del singolo politico o del singolo rappresentante dello Stato; lo scopo è causare e alimentare emozioni negative quali la paura, l’angoscia, l’inibizione delle attività. Si amplificano infatti non solo la paura della morte, ma anche quelle intime e soggettive come la paura delle malattie, degli incidenti, delle brutte notizie ect. Si diventa più intolleranti allo stress e alle frustrazioni, aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è straniero, sconosciuto, estraneo al proprio quotidiano.
Per fare ciò – il terrorismo – sfrutta al massimo il potere mediatico e persuasivo dei mezzi di comunicazione di massa che - volente o nolente - fungono da cassa di risonanza. Vedere più e più volte e da svariate angolazioni le immagini delle esplosioni (come se le stessimo vivendo in prima persona), le persone che fuggono urlando o che piangono disperatamente, macerie, corpi senza vita di adulti e bambini, ne moltiplica l’impatto psicologico sulla popolazione.
Le notizie dei mass media, non sono più solo semplice informazione; esse rappresentano dei colpi sferrati alle certezze del singolo individuo e all’equilibrio su cui si regge il vivere civile, che in questo modo inizia a vacillare; alcune persone possono cominciare a vivere con un senso di di costante minaccia verso qualcosa che incombe da fuori e che non può essere controllato.
Le vittime del terrorismo - quindi - non sono solamente le persone che lo hanno vissuto in prima persona. A cascata possiamo essere tutti delle potenziali vittime, perché è come se vivessimo l’evento anche a chilometri di distanza attraverso la tv, i telefonini o il computer.
Nello specifico, gli esperti distinguono tre tipologie di vittime:
Vittime "primarie", vale a dire i soggetti direttamente coinvolti dall´evento critico (in questo caso l’attacco terroristico). Questi soggetti provano la costante sensazione che possa nuovamente succedere qualcosa di brutto e rivivono nella loro testa l´evento traumatico attraverso flash-back e ricordi intrusivi. Tutto ciò rende loro difficile riprendere la routine quotidiana, perché è come se vivessero in un continuo stato di allerta.
Vittime "secondarie", cioè i familiari e le persone vicine ai soggetti direttamente colpiti, che pur non essendo stati direttamente coinvolti nell´evento traumatico, lo vivono in maniera indiretta attraverso ciò che è accaduto ai propri familiari, sviluppando ansie, paure e disagio.
Vittime "terziarie", sia i soccorritori intervenuti sulla scena, sia gli spettatori mediatici. Rispetto ai primi, si pensa generalmente che “loro sono quelli dal sangue freddo, quelli dallo stomaco forte”; non è proprio così! Spesso si tratta della categoria maggiormente a rischio di sviluppare reazioni post-traumatiche perché, nonostante presentino una soglia di tolleranza allo stress maggiore rispetto alla popolazione generale, essi corrono il rischio di sviluppare delle conseguenze psicologiche importanti per il contatto con la persona soccorsa, vittima dell’evento critico.
…. E poi c’è il resto del mondo! … E poi ci siamo noi spettatori che stiamo dall’altro lato dell’apparecchio, che - guardando le scene di attacchi terroristici in televisione - possiamo sentirci inquieti, avere paura di tornare da soli a casa, modificare concretamente la propria qualità di vita, con la chimera di proteggerci da tutti i potenziali pericoli. Sono in molti ad aver cancellato un viaggio di piacere, a preferire la propria automobile ad un altro mezzo di trasporto, oppure a modificare il modo di relazionarsi con lo “straniero”, considerato pericoloso perché “diverso o sconosciuto”.
È l’emotività e non la ragione a renderci così vulnerabili.
Questo succede agli adulti… e i bambini?
In tutta questa situazione un’attenzione particolare andrebbe dedicata a loro, spesso esposti in modo inerme alle immagini cruente dei telegiornali o anche dei social network e alle paure degli adulti. Anche in questo caso si commette l’errore di pensare che “tanto i bambini non capiscono nulla” e dunque di non parlare con loro, di non dare loro la possibilità di chiedere chiarimenti e in questo modo condividere il peso della paura che portano dentro. E così tutto diventa ancora più terribile e pericoloso. Spesso percependo la paura dei grandi, si rifugiano tra i coetani (anche loro confusi e/o terrorizzati) ed è così che spesso tra i banchi di scuola (dunque per i più grandi) si immaginano scenari cruenti e catastrofici.
È invece fondamentale che gli adulti facciano da filtro a queste paure, aiutando i più piccoli a esprimere e fronteggiare le proprie emozioni. La loro tutela è un impegno quotidiano che comporta scelte coraggiose e coscenziose da parte di coloro che si chiamano – o si fanno chiamare – adulti.
dott/ssa Stella Morano
Attacchi terroristici, esplosioni, uccisioni, torture. Si tratta di eventi che - a partire da quel famoso 11 settembre 2001 ma ancor di più negli ultimi anni con i fatti più recenti – hanno scosso l’opinione pubblica e l’emotività delle persone. Basti pensare che la paura di eventuali attacchi terroristici, sembri essere tra le prime angosce a condizionare l’immaginario collettivo. Mi viene in mente la prima frase del presidente Roosevelt, pronunciata nel 1932 nel suo primo discorso da presidente: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura». Certo il contesto era diverso - arrivava alla Casa Bianca dopo la crisi del ’29, dopo la Grande Depressione e parlava ad un paese mai così povero e disperato, scosso nelle sue certezze più radicate – ma la frase sembra apparire tutt’altro che superata.
Qual è l’obiettivo del terrorismo?
Certamente (o per lo meno nella maggior parte dei casi ) non è l’uccisione del singolo politico o del singolo rappresentante dello Stato; lo scopo è causare e alimentare emozioni negative quali la paura, l’angoscia, l’inibizione delle attività. Si amplificano infatti non solo la paura della morte, ma anche quelle intime e soggettive come la paura delle malattie, degli incidenti, delle brutte notizie ect. Si diventa più intolleranti allo stress e alle frustrazioni, aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è straniero, sconosciuto, estraneo al proprio quotidiano.
Per fare ciò – il terrorismo – sfrutta al massimo il potere mediatico e persuasivo dei mezzi di comunicazione di massa che - volente o nolente - fungono da cassa di risonanza. Vedere più e più volte e da svariate angolazioni le immagini delle esplosioni (come se le stessimo vivendo in prima persona), le persone che fuggono urlando o che piangono disperatamente, macerie, corpi senza vita di adulti e bambini, ne moltiplica l’impatto psicologico sulla popolazione.
Le notizie dei mass media, non sono più solo semplice informazione; esse rappresentano dei colpi sferrati alle certezze del singolo individuo e all’equilibrio su cui si regge il vivere civile, che in questo modo inizia a vacillare; alcune persone possono cominciare a vivere con un senso di di costante minaccia verso qualcosa che incombe da fuori e che non può essere controllato.
Le vittime del terrorismo - quindi - non sono solamente le persone che lo hanno vissuto in prima persona. A cascata possiamo essere tutti delle potenziali vittime, perché è come se vivessimo l’evento anche a chilometri di distanza attraverso la tv, i telefonini o il computer.
Nello specifico, gli esperti distinguono tre tipologie di vittime:
Vittime "primarie", vale a dire i soggetti direttamente coinvolti dall´evento critico (in questo caso l’attacco terroristico). Questi soggetti provano la costante sensazione che possa nuovamente succedere qualcosa di brutto e rivivono nella loro testa l´evento traumatico attraverso flash-back e ricordi intrusivi. Tutto ciò rende loro difficile riprendere la routine quotidiana, perché è come se vivessero in un continuo stato di allerta.
Vittime "secondarie", cioè i familiari e le persone vicine ai soggetti direttamente colpiti, che pur non essendo stati direttamente coinvolti nell´evento traumatico, lo vivono in maniera indiretta attraverso ciò che è accaduto ai propri familiari, sviluppando ansie, paure e disagio.
Vittime "terziarie", sia i soccorritori intervenuti sulla scena, sia gli spettatori mediatici. Rispetto ai primi, si pensa generalmente che “loro sono quelli dal sangue freddo, quelli dallo stomaco forte”; non è proprio così! Spesso si tratta della categoria maggiormente a rischio di sviluppare reazioni post-traumatiche perché, nonostante presentino una soglia di tolleranza allo stress maggiore rispetto alla popolazione generale, essi corrono il rischio di sviluppare delle conseguenze psicologiche importanti per il contatto con la persona soccorsa, vittima dell’evento critico.
…. E poi c’è il resto del mondo! … E poi ci siamo noi spettatori che stiamo dall’altro lato dell’apparecchio, che - guardando le scene di attacchi terroristici in televisione - possiamo sentirci inquieti, avere paura di tornare da soli a casa, modificare concretamente la propria qualità di vita, con la chimera di proteggerci da tutti i potenziali pericoli. Sono in molti ad aver cancellato un viaggio di piacere, a preferire la propria automobile ad un altro mezzo di trasporto, oppure a modificare il modo di relazionarsi con lo “straniero”, considerato pericoloso perché “diverso o sconosciuto”.
È l’emotività e non la ragione a renderci così vulnerabili.
Questo succede agli adulti… e i bambini?
In tutta questa situazione un’attenzione particolare andrebbe dedicata a loro, spesso esposti in modo inerme alle immagini cruente dei telegiornali o anche dei social network e alle paure degli adulti. Anche in questo caso si commette l’errore di pensare che “tanto i bambini non capiscono nulla” e dunque di non parlare con loro, di non dare loro la possibilità di chiedere chiarimenti e in questo modo condividere il peso della paura che portano dentro. E così tutto diventa ancora più terribile e pericoloso. Spesso percependo la paura dei grandi, si rifugiano tra i coetani (anche loro confusi e/o terrorizzati) ed è così che spesso tra i banchi di scuola (dunque per i più grandi) si immaginano scenari cruenti e catastrofici.
È invece fondamentale che gli adulti facciano da filtro a queste paure, aiutando i più piccoli a esprimere e fronteggiare le proprie emozioni. La loro tutela è un impegno quotidiano che comporta scelte coraggiose e coscenziose da parte di coloro che si chiamano – o si fanno chiamare – adulti.
dott/ssa Stella Morano