MODICA - 80 OPERE NELLA MOSTRA ANTOLOGICA DI PIERO GUCCIONE: CELEBRATI, ALLA PRESENZA DI FRANCO BATTIATO, GLI 80 ANNI DEL MAESTRO SCICLITANO.



Ieri sera, prima presso l´auditorium " Pietro Floridia " e poi presso l´ex caserma dei CC, sono stati celebrati gli 80 anni del maestro Piero Guccione: la manifestazione, voluta dal sindaco di Modica, Ignazio Abbate, da Tonino Cannata, dal prof. Paolo Nifosì e da Marco Goldin, ha inaugurato la mostra antologica nazionale con 80 creazioni del maestro, opere raccolte tutte da collezioni private e relative all´arco temporale che va dagli anni sessanta fino al 2014.Era presente il cantautore Franco Battiato.
Il maestro Piero Guccione, illustre studente dell´ISA " Fiume " di Comiso, come lui stesso tiene a ricordare, ha onorato con la sua presenza la città di Modica: vanto dell´intera nazione, ha voluto creare il famoso gruppo di Scicli, un cenacolo di artisti, siciliani e non, presente nella cittadina iblea.
Vogliamo onorare Piero Guccione con un brano a lui dedicato tratto dal romanzo " La fuggitiva di Rosacambra" di Girolamo Piparo, edito nel marzo 2014 da Associazione culturale " Dialogo " di Modica.
" Sulla terrazza più alta della masseria, al di sopra dei merli e dei beccatelli, una figura si muoveva a osservare con particolare curiosità il paesaggio circostante. L´uomo presentava dei capelli attraversati da qualche filo d´argento. Inforcava sul naso dei cerchi di vetro, che facevano apparire più grandi le pupille, quasi fossero dilatate per l´assunzione di sostanze alcaloidi o per una sorta di spavento: era l´ultima invenzione che veniva da lontano, da oltre i monti, dove gli uomini di diverse città avevano costruito delle lenti che permettevano all´occhio umano di vedere meglio. L´umanità in questo modo era riuscita a superare le difficoltà dovute agli anni o ai misteri della natura, offrendo la possibilità di vedere di più e di illuminare, con le lenti, oggetti e contorni, che diversamente sarebbero piombati nel buio della cecità.
E dire che già di suo l´occhio di quest´uomo era abbastanza penetrante e indagatore, pervaso comunque da un senso di mitezza, che infondeva tranquillità.
L´uomo non faceva che viaggiare, curioso di costumi e di uomini, come ricordava lui stesso. Quello che più lo interessava era un viaggio breve e al tempo stesso continuo, su e giù, in lungo e in largo, attorno ai due o tre metri quadrati che sono davanti al cavalletto. Infatti, come Andrea aveva notato con curiosità, sulla parte più elevata della terrazza l´uomo aveva collocato davanti a sé uno strano aggeggio, che poggiava su tre piedi e reggeva una tela tesa ad arte da una serie di tiranti, celati dietro una intelaiatura di legno. Quando il sole picchiava con i suoi raggi, l´uomo si faceva accompagnare da un aiutante, uno della bottega, pronto a spalancare le ampie ali di un grande ombrello nero, per difendere il maestro dalla calura certamente insopportabile per uno straniero.
Ma Piero - questo era il nome dell´uomo - non era uno straniero. Possedeva dei lineamenti mediterranei, non importa se simili a quelli di un nativo della Sicilia o di un´altra isola del grande mare, come Zacinto o Itaca: gli uomini in questo mare si somigliano tutti, come se fossero figli dello stesso dio, probabilmente Poseidone, o come se fossero - e lo sono - il frutto di incroci sedimentati tra una riva e l´altra.
Piero era, comunque, simile ad Odisseo, per aspetto e per temperamento. E quanti siciliani non sono come l´eroe di Omero? Piero aveva viaggiato a lungo, dopo che un maestro privato, scoprendo il suo talento ancora acerbo, aveva persuaso i genitori a permettere al figlio di affrontare la vita con il viatico di una tavolozza e di qualche pennello, tralasciando la più tranquilla carriera di cerusico o di notaio.
Lungo le trazzere regie, polverose e malsicure, il giovane Piero aveva percorso chilometri e chilometri; aveva assistito ai drammi incomprensibili delle guerre, alla violenza banale degli uomini, alla vita dorata della città. Aveva percorso campagne assolate, che gli ricordavano i campi di grano della sua terra. Aveva conosciuto le folle miserabili dei lazzaroni di Napoli e dei gavroches di Parigi, i complessi chiaroscuri dei fiamminghi e le figure mistiche di El Greco.
Soprattutto aveva imparato a usare la matita grassa e la punta secca per incidere la pietra o il rame, una lastra di zinco o addirittura di legno. Era stato a bottega, anzi in diverse botteghe d´arte, rapito dal fascino dei grandi maestri. Aveva percorso la stessa strada di Paolo Uccello e dei Ghiberti, di Iacopo della Quercia e di Filippo Lippi, che sin dall´età di dodici anni erano stati messi a pestare colori nei mortai, a copiare disegni, come avviene ancora oggi nelle Accademie e nei licei artistici, a dorare cornici: se non si aveva la possibilità di farlo in famiglia, come capitava ai più fortunati, come Lorenzo Ghiberti, che aveva lavorato presso la bottega di orafo del padre, o come Mattia Preti, che lavorò presso il fratello, dovevi per forza seguire l´apprendistato presso un pittore o uno scultore, che imponeva le ferree leggi della bottega. Piero aveva così compreso i segreti di Piranesi e dell´incisione su rame con l´acquaforte; aveva provato e riprovato a usare l´ acquatinta, dopo essere rimasto impressionato dai mostri generati dal sonno della ragione con Goya. Aveva imparato da subito la necessità dell´ordine e delle regole, l´importanza della pulizia e la necessità di sgrassare le lastre prima di iniziare un lavoro. Aveva intrapreso un dialogo serrato e spontaneo con i suoi maestri, per riuscire ad apprendere come questi avevano saputo rubare la luce per imprigionarla in una tela, avevano racchiuso l´immensità dello spazio in un quadro, avevano mescolato i pigmenti per imbrattare le dita e fare rivivere i sogni con i pastelli. Aveva imparato a vivere fisicamente la pittura, assorbita corporeamente dall´artista che spalma i colori su un foglio, su un drappo, per dare vita a un fiore appena raccolto in un giardino, all´ultimo albero nella pianura, epicedio botanico come il carrubo, a un nudo di donna, appena alzata dopo una lunga notte insonne. Aveva appreso a rappresentare, con grande abilità di segno e con un caleidoscopio di tenui colori, l´avventura della vita.
A Roma, in particolare, Piero aveva affinato la sua tecnica: si era impadronito dell´ utilizzo del pennello, prolungamento artificiale delle dita.
E´ naturale il pastello: è quasi una forma di pittura realizzata direttamente attraverso le dita, mediante il corpo.
Ha, al contrario, maggiormente il sapore della mediazione la pittura con il pennello: ti permette di meditare mentre, avanti e indietro, ti muovi e osservi questo lembo di una misteriosa terra promessa dato - come osserva Piero - dalla tela che aspetta il tuo intervento. Dentro i confini della tela puoi racchiudere l´intero universo, puoi finalmente realizzare l´impossibile, per imporre il limite all´infinito all´interno del finito. Puoi riprodurre un ibisco, uno scorcio di mare, delle pietre precipitate là, per caso, su un terreno, dipinto con un verde che sembra colore impastato con la terra di cui è composto il terreno stesso.
Andrea provava a immaginare Piero, anche quando questi era assente per uno dei suoi soliti viaggi, fermo là, in posa statuaria, assorto e meditabondo sul grande terrazzo, davanti al cavalletto. Lo immaginava nel trionfo della luce meridiana, con dei fili d´argento sulla testa, al riparo del grande ombrello nero, intento a osservare e dipingere l´immensa distesa dei campi iblei o del mare, da cui per secoli erano sbarcati predoni mori, che avevano spinto a costruire paesi lontano dalla riva o a fortificare masserie e abitazioni.
Era una grande mescolanza di colori quella a cui Andrea aveva la fortuna di assistere; era un pot-pourri di giallo, di argento, di nero, di azzurro. Piero riusciva a riprodurre il tutto, le mille sfumature di giallo, di argento, di nero, di azzurro, trasformando ogni sfumatura, abilmente, con il suo occhio e con la sua mente, sulla tela.
Il nero delle falde dell´ombrello si stagliava, imperioso, sul giallo sconfinato delle messi nei mesi caldi o, adesso in primavera, sul verde malva dei prati, ove gli steli teneri del frumento o del fieno spuntano dal fondo ocra della terra e sullo sfondo il carminio rende il rosso infuocato dei tramonti siciliani. E poi c´era la lontananza del mare, con tutta la varietà dell´azzurro e del nero, che Piero riusciva a riprodurre misteriosamente, dosando sapientemente l´olio con i pigmenti derivati dai lapislazzuli, dall´acqua marina o dalla pietra celeste.
L´uomo aveva imparato, con una artigianalità quasi maniacale, a triturare i minerali e a miscelarli con l´olio, dosando le varie quantità, fino ad ottenere la varie scale cromatiche dal blu di Prussia all´azzurro di Voronet, passando per il cremisi o il ceruleo, digradante verso l´indaco. Aveva compreso che la maestria di un bravo pittore sta innanzitutto nel riuscire a padroneggiare sapientemente i colori e a creare un colore che è personalissimo, che è suo, che caratterizza la propria opera pittorica. Ecco spiegata allora la cura con cui Piero metteva insieme i pigmenti, li sceglieva con molta attenzione, li mischiava con il tuorlo d´uovo, prima ancora che con l´olio. Era un´attenzione maniacale quella che Piero riponeva nella preparazione dei colori, come nella scelta della tela o della carta per i suoi acquarelli o per i suoi pastelli o, ancora, per gli acquarelli pastellati. La carta se la faceva appositamente preparare da cartiere particolari, di cui tutto il territorio di Rosacambra era ricco, grazie ai corsi d´acqua che nella zona abbondavano. Per i colori usava i pigmenti con lo stesso amore che si diceva usasse un tintore della zona, che pigiava la robbia e la faceva macerare in vasche d´argilla, per ottenere il rosso: lo stesso faceva con la cipolla di Tropea per il corallo, usando poi il ginepro per il bianco, l´esterno della conchiglia per il rosa e il rovere per tingere i tessuti di verde. Piero aveva così imparato ad annacquare l´azzurro nella biacca, per rendere un´alba marina e, soprattutto, per fare percepire a tutti l´intera poesia del mare. Aveva rubato alla geografia i mille colori per trasferirli sulla tela, non solo il blu di Prussia, ma anche quello d´Egitto, o quello di Occitania, il giallo di Siena, il verde d´India, il bianco di Spagna. E, inoltre, era ricorso al nero Roma e al bianco di Titanio, colori assoluti, fino al blu oltremare e alla terra d´ombra, per dei pastelli che sembravano appunto ombrati come delle acquetinte. Aveva imparato a lavorare la lastra di rame o di pietra, raschiando e disegnando, aprendo il giusto varco al colore, che avrebbe invaso il foglio e creato il miracolo dell´immagine, la magia dei segni.
Andrea osservava tutti gli effetti mirabili di questa poesia dipinta, le linee azzurre con un blu più intenso in lontananza, proprio al confine tra cielo e mare, oppure la luce solare che quasi rende pure le onde, proprio come l´oro bizantino puro con i suoi ventiquattro carati, oppure ancora le ampie chiazze immote, quasi correnti calde nell´infinità marina manco fossimo dalle parti dei Sargassi.
Non era affatto necessario assistere al baluginio della Fata Morgana, al sorprendente effetto marino che a pochi fortunati si mostra, in giornate di particolare luminosità, sulle acque che si agitano incessantemente tra Scilla e Cariddi. Il fenomeno, conosciuto almeno sin dai tempi lontani dei Normanni, che così lo battezzarono facendo ricorso a una figura della mitologia celtica, in giorni assolutamente tersi tende a manifestarsi ancora oggi, facendo specchiare sulla superficie piatta porzioni di cielo e paesaggi lontani, grazie a un magnifico effetto di rifrazione tra i vari strati dell´atmosfera.
Non era affatto necessario, per Andrea, ricorrere alla Fata Morgana per assaporare la bellezza dei dipinti di Piero. Sulla superficie piatta delle acque si specchia un´ampia porzione di cielo o appare una luna nascente, al limite di tenui azzurrini, simili a zaffiri orientali, che non sai più se appartenenti al mare o al cielo.
Forzando l´immaginazione, Andrea sperava di vedere materializzarsi da quelle acque calme qualche ondina, proveniente direttamente da Asgard, la leggendaria città nordica dell´arcobaleno: per amore degli uomini, esseri capaci di procurare tanto dolore ma anche tanto affetto, l´ondina, con la treccia bionda, senza potere più tornare indietro, proprio come Rusalka nell´opera musicale di Dvorak, sarebbe emersa dalle acque e sarebbe andata a vivere con il suo uomo, siciliano.
Appariva simile a quello di Rusalka il destino di Aniya. Tra le due donne c´era un´accentuata somiglianza, tutta esteriore, legata al colore dei capelli e alla maniera di annodarli; c´era anche una diversità nelle fattezze e nei lineamenti, molto più dolci e sereni in Aniya, come in tutte le donne slave o andaluse. Eppure le due donne avevano attraversato esperienze simili. Avevano percorso un lungo cammino, che non permetteva loro di tornare indietro: per amore di un uomo si erano trasformate, mettendo da parte le antiche consuetudini, per andare a vivere, come nel caso di Aniya, nella terra impareggiabile delle antiche leggende e dei miti greci, nella terra di Eolo e dei Ciclopi, di Proserpina e di Colapesce.
Nella mente di Andrea a poco a poco si insinuava un desiderio. Il giovane si era ripetutamente soffermato ad ammirare un pastello di Piero: l´opera rappresenta il pittore stesso mentre osserva la sua modella, con le due figure distanti tra loro e immerse in uno spazio senza tempo, in un vuoto assoluto, quasi a condensare tutta la realtà in quel pastello. Più Andrea guarda quel pastello, più immagina che Piero riproduca la sua Aniya in un dipinto. D´altra parte la pittura non è forse esattamente come la scrittura? Non accarezza il pittore, con il pennello o con le dita imbrattate di colore, il soggetto della sua opera? E il romanziere non accarezza forse con la scrittura la donna protagonista dei suoi racconti? Non è forse la sensazione di sensuale godimento, di furtiva carezza quella che si impadronisce dello scrittore che avvolge Aniya con le sue parole, di Neruda che canta la sua donna, di Modigliani che tratteggia la figura allungata della sua modella, di Degas che dipinge un nudo femminile, del pittore irrequieto che sceglie come sua Musa una fanciulla ventenne, lui sessantenne, e la rende protagonista delle sue opere e della sua vita, profondamente riamato.
Di sicuro Piero avrebbe espresso tutto il suo sentimento poetico, pronto a coniugare la dolcezza delle immagini con la sofferenza della vita, nel volto della donna, nelle fattezze di Aniya.
E se lo immaginava subito Andrea l´olio su tela, osservando i riccioli biondi mentre si stagliano sullo sfondo delle infinite sfumature di azzurro, che non fanno altro che rappresentare il Mediterraneo, il calmo e piatto centro del mondo, da sempre. L´azzurro, il meno azzurro e il più azzurro danno voce al respiro del mare nostro: te lo fanno sentire questo respiro, quasi respiro umano che si muove da una riva all´altra, dalle sponde levantine di Smirne e di Rodi fino a Gibilterra e all´ultimo lembo di Spagna, dalle spiagge di Misurata e di Leptis Magna fino alle coste di Punta Corvo e di Capo Scalambri, nel territorio di Rosacambra.
In queste spiagge, in questo mare Piero è venuto a naufragare. E´ l´Odisseo che è tornato non per fare riposare le stanche membra, ma per attingere, come Anteo, la forza primigenia ogniqualvolta tocca la sacra terra. E´ tornato per alimentarsi di immagini rese in maniera sempre più rarefatta, di silenzi che incantano con la loro magia, di spazi infiniti non interrotti da alcuna siepe e di fronte a cui l´animo rimane in una sorta di mistica sospensione, come succede solo in Oriente ai danzatori dervisci o in Occidente nel Sid, il paradiso celtico dei Druidi.
Ed eccolo ancora una volta questo mare, dalle acque tranquille, che hanno osservato la storia e le storie rimanendo impassibili e tornando tranquille, dopo avere inghiottito vele e cannoniere, triremi e sciabecchi, uomini e tesori, bronzi ellenistici e sculture bizantine. Eccolo ancora questo mare, sempre presente nell´opera di Piero, che ne riproduce la vita, il continuo palpitare, la luce così importante in ogni momento, all´alba come al tramonto, di giorno come al crepuscolo. Eccolo ancora questo mare, che unisce Oriente e Occidente, anche quando i suoi popoli non vogliono unirsi. Genovesi si sono insediati a Galata, di fronte al Fanar abitato dai Greci e sulle rive del Bosforo, come i Bizantini, con il generale Belisario, si sono stabiliti a Caucana, nelle terra abitata da Piero e nel priorato di Rosacambra, prima che questo venisse istituito.
Aniya dall´Occidente estremo è arrivata in Oriente, quindi nella più grande isola del Mediterraneo, inseguendo i suoi sogni giovanili o, sicuramente, il suo destino irrequieto, trascinata dal mistero dell´isola del fuoco e del mare.
Adesso Aniya sta per essere rappresentata, con l´arcobaleno dei colori della tavolozza di Piero, dinanzi a questo mare che, comunque, è segno di unione, di vita, di amore: tra le sue mani Piero colloca un fiore rosso, tipico della sua arte, un ibisco, il fiore delle coste siciliane, sinonimo di sensualità, di vita, di amore. I lineamenti delicati, rosei come le rose di Pieria, di cui non è difficile immaginare il profumo, sono da Piero incorniciati dalle ciocche d´oro, quasi scomposte dalla brezza del Mediterraneo; il corpo si lascia intuire, grazie alle dense pennellature, al di là delle plissettature della veste di seta, con le increspature che seguono l´andamento delle anche ben tornite e dei seni piccoli, ma turgidi e ben proporzionati come rosea corona attorno ai capezzoli di seta. D´altra parte non sono piccoli i seni della Venere di Milo o della Venere Italica del Canova, di fronte ai quali quelli di Aniya non hanno nulla da invidiare?
Andrea nella sua fantasia adesso osserva con attenzione la tela: per lui è finalmente completa. E´ un´opera inondata di luce, di temi azzurrini, complementari e speculari all´oro dei capelli di Aniya e al purpureo dell´ibisco.
Piero è riuscito a catturare e a imprigionare la luce nella sua tela, con la sapiente mistura di bianco e di lapislazzuli, tanto che l´animo dell´osservatore perviene facilmente a una forma di atarassia, di sognante tranquillità germogliata dalla tempesta di sfumature cromatiche di grande purezza. Non è un paradosso se Piero è riuscito a realizzare l´impossibile. Nella terra dei paradossi e dei violenti contrasti il fuoco si mescola con la neve, la lava si congiunge con il mare, i torrenti straripano e devastano campi resi arsi dal sole quasi perenne, l´amore e la passione si trasformano facilmente in morte. Eppure il poeta, il musico, il pittore riescono a trasformare questa realtà a volte drammatica, sono capaci di mitigare la violenza dei sentimenti, pervengono a opere di grande tensione artistica e di una bellezza che istilla piacere e calma nell´animo. Godimento e senso, oro e rosso, luce e ombra, colore e disegno vengono mescolati nell´opera di Piero, trasformati e resi particolarmente splendenti da quella intensa luminosità che solo nel meriggio siciliano e grazie alle pastose pennellate dell´artista puoi avere l´occasione di gustare.
Lo stesso Goethe, di fronte a una tela del genere, trasportato da quella piena luminosità di mare, di cielo e di fanciulla, forse si sarebbe astenuto dall´esclamare "Mehr licht!", "più luce", quando si spense un giorno di marzo del 1832, a mezzogiorno.
Il maestro Piero Guccione, illustre studente dell´ISA " Fiume " di Comiso, come lui stesso tiene a ricordare, ha onorato con la sua presenza la città di Modica: vanto dell´intera nazione, ha voluto creare il famoso gruppo di Scicli, un cenacolo di artisti, siciliani e non, presente nella cittadina iblea.
Vogliamo onorare Piero Guccione con un brano a lui dedicato tratto dal romanzo " La fuggitiva di Rosacambra" di Girolamo Piparo, edito nel marzo 2014 da Associazione culturale " Dialogo " di Modica.
" Sulla terrazza più alta della masseria, al di sopra dei merli e dei beccatelli, una figura si muoveva a osservare con particolare curiosità il paesaggio circostante. L´uomo presentava dei capelli attraversati da qualche filo d´argento. Inforcava sul naso dei cerchi di vetro, che facevano apparire più grandi le pupille, quasi fossero dilatate per l´assunzione di sostanze alcaloidi o per una sorta di spavento: era l´ultima invenzione che veniva da lontano, da oltre i monti, dove gli uomini di diverse città avevano costruito delle lenti che permettevano all´occhio umano di vedere meglio. L´umanità in questo modo era riuscita a superare le difficoltà dovute agli anni o ai misteri della natura, offrendo la possibilità di vedere di più e di illuminare, con le lenti, oggetti e contorni, che diversamente sarebbero piombati nel buio della cecità.
E dire che già di suo l´occhio di quest´uomo era abbastanza penetrante e indagatore, pervaso comunque da un senso di mitezza, che infondeva tranquillità.
L´uomo non faceva che viaggiare, curioso di costumi e di uomini, come ricordava lui stesso. Quello che più lo interessava era un viaggio breve e al tempo stesso continuo, su e giù, in lungo e in largo, attorno ai due o tre metri quadrati che sono davanti al cavalletto. Infatti, come Andrea aveva notato con curiosità, sulla parte più elevata della terrazza l´uomo aveva collocato davanti a sé uno strano aggeggio, che poggiava su tre piedi e reggeva una tela tesa ad arte da una serie di tiranti, celati dietro una intelaiatura di legno. Quando il sole picchiava con i suoi raggi, l´uomo si faceva accompagnare da un aiutante, uno della bottega, pronto a spalancare le ampie ali di un grande ombrello nero, per difendere il maestro dalla calura certamente insopportabile per uno straniero.
Ma Piero - questo era il nome dell´uomo - non era uno straniero. Possedeva dei lineamenti mediterranei, non importa se simili a quelli di un nativo della Sicilia o di un´altra isola del grande mare, come Zacinto o Itaca: gli uomini in questo mare si somigliano tutti, come se fossero figli dello stesso dio, probabilmente Poseidone, o come se fossero - e lo sono - il frutto di incroci sedimentati tra una riva e l´altra.
Piero era, comunque, simile ad Odisseo, per aspetto e per temperamento. E quanti siciliani non sono come l´eroe di Omero? Piero aveva viaggiato a lungo, dopo che un maestro privato, scoprendo il suo talento ancora acerbo, aveva persuaso i genitori a permettere al figlio di affrontare la vita con il viatico di una tavolozza e di qualche pennello, tralasciando la più tranquilla carriera di cerusico o di notaio.
Lungo le trazzere regie, polverose e malsicure, il giovane Piero aveva percorso chilometri e chilometri; aveva assistito ai drammi incomprensibili delle guerre, alla violenza banale degli uomini, alla vita dorata della città. Aveva percorso campagne assolate, che gli ricordavano i campi di grano della sua terra. Aveva conosciuto le folle miserabili dei lazzaroni di Napoli e dei gavroches di Parigi, i complessi chiaroscuri dei fiamminghi e le figure mistiche di El Greco.
Soprattutto aveva imparato a usare la matita grassa e la punta secca per incidere la pietra o il rame, una lastra di zinco o addirittura di legno. Era stato a bottega, anzi in diverse botteghe d´arte, rapito dal fascino dei grandi maestri. Aveva percorso la stessa strada di Paolo Uccello e dei Ghiberti, di Iacopo della Quercia e di Filippo Lippi, che sin dall´età di dodici anni erano stati messi a pestare colori nei mortai, a copiare disegni, come avviene ancora oggi nelle Accademie e nei licei artistici, a dorare cornici: se non si aveva la possibilità di farlo in famiglia, come capitava ai più fortunati, come Lorenzo Ghiberti, che aveva lavorato presso la bottega di orafo del padre, o come Mattia Preti, che lavorò presso il fratello, dovevi per forza seguire l´apprendistato presso un pittore o uno scultore, che imponeva le ferree leggi della bottega. Piero aveva così compreso i segreti di Piranesi e dell´incisione su rame con l´acquaforte; aveva provato e riprovato a usare l´ acquatinta, dopo essere rimasto impressionato dai mostri generati dal sonno della ragione con Goya. Aveva imparato da subito la necessità dell´ordine e delle regole, l´importanza della pulizia e la necessità di sgrassare le lastre prima di iniziare un lavoro. Aveva intrapreso un dialogo serrato e spontaneo con i suoi maestri, per riuscire ad apprendere come questi avevano saputo rubare la luce per imprigionarla in una tela, avevano racchiuso l´immensità dello spazio in un quadro, avevano mescolato i pigmenti per imbrattare le dita e fare rivivere i sogni con i pastelli. Aveva imparato a vivere fisicamente la pittura, assorbita corporeamente dall´artista che spalma i colori su un foglio, su un drappo, per dare vita a un fiore appena raccolto in un giardino, all´ultimo albero nella pianura, epicedio botanico come il carrubo, a un nudo di donna, appena alzata dopo una lunga notte insonne. Aveva appreso a rappresentare, con grande abilità di segno e con un caleidoscopio di tenui colori, l´avventura della vita.
A Roma, in particolare, Piero aveva affinato la sua tecnica: si era impadronito dell´ utilizzo del pennello, prolungamento artificiale delle dita.
E´ naturale il pastello: è quasi una forma di pittura realizzata direttamente attraverso le dita, mediante il corpo.
Ha, al contrario, maggiormente il sapore della mediazione la pittura con il pennello: ti permette di meditare mentre, avanti e indietro, ti muovi e osservi questo lembo di una misteriosa terra promessa dato - come osserva Piero - dalla tela che aspetta il tuo intervento. Dentro i confini della tela puoi racchiudere l´intero universo, puoi finalmente realizzare l´impossibile, per imporre il limite all´infinito all´interno del finito. Puoi riprodurre un ibisco, uno scorcio di mare, delle pietre precipitate là, per caso, su un terreno, dipinto con un verde che sembra colore impastato con la terra di cui è composto il terreno stesso.
Andrea provava a immaginare Piero, anche quando questi era assente per uno dei suoi soliti viaggi, fermo là, in posa statuaria, assorto e meditabondo sul grande terrazzo, davanti al cavalletto. Lo immaginava nel trionfo della luce meridiana, con dei fili d´argento sulla testa, al riparo del grande ombrello nero, intento a osservare e dipingere l´immensa distesa dei campi iblei o del mare, da cui per secoli erano sbarcati predoni mori, che avevano spinto a costruire paesi lontano dalla riva o a fortificare masserie e abitazioni.
Era una grande mescolanza di colori quella a cui Andrea aveva la fortuna di assistere; era un pot-pourri di giallo, di argento, di nero, di azzurro. Piero riusciva a riprodurre il tutto, le mille sfumature di giallo, di argento, di nero, di azzurro, trasformando ogni sfumatura, abilmente, con il suo occhio e con la sua mente, sulla tela.
Il nero delle falde dell´ombrello si stagliava, imperioso, sul giallo sconfinato delle messi nei mesi caldi o, adesso in primavera, sul verde malva dei prati, ove gli steli teneri del frumento o del fieno spuntano dal fondo ocra della terra e sullo sfondo il carminio rende il rosso infuocato dei tramonti siciliani. E poi c´era la lontananza del mare, con tutta la varietà dell´azzurro e del nero, che Piero riusciva a riprodurre misteriosamente, dosando sapientemente l´olio con i pigmenti derivati dai lapislazzuli, dall´acqua marina o dalla pietra celeste.
L´uomo aveva imparato, con una artigianalità quasi maniacale, a triturare i minerali e a miscelarli con l´olio, dosando le varie quantità, fino ad ottenere la varie scale cromatiche dal blu di Prussia all´azzurro di Voronet, passando per il cremisi o il ceruleo, digradante verso l´indaco. Aveva compreso che la maestria di un bravo pittore sta innanzitutto nel riuscire a padroneggiare sapientemente i colori e a creare un colore che è personalissimo, che è suo, che caratterizza la propria opera pittorica. Ecco spiegata allora la cura con cui Piero metteva insieme i pigmenti, li sceglieva con molta attenzione, li mischiava con il tuorlo d´uovo, prima ancora che con l´olio. Era un´attenzione maniacale quella che Piero riponeva nella preparazione dei colori, come nella scelta della tela o della carta per i suoi acquarelli o per i suoi pastelli o, ancora, per gli acquarelli pastellati. La carta se la faceva appositamente preparare da cartiere particolari, di cui tutto il territorio di Rosacambra era ricco, grazie ai corsi d´acqua che nella zona abbondavano. Per i colori usava i pigmenti con lo stesso amore che si diceva usasse un tintore della zona, che pigiava la robbia e la faceva macerare in vasche d´argilla, per ottenere il rosso: lo stesso faceva con la cipolla di Tropea per il corallo, usando poi il ginepro per il bianco, l´esterno della conchiglia per il rosa e il rovere per tingere i tessuti di verde. Piero aveva così imparato ad annacquare l´azzurro nella biacca, per rendere un´alba marina e, soprattutto, per fare percepire a tutti l´intera poesia del mare. Aveva rubato alla geografia i mille colori per trasferirli sulla tela, non solo il blu di Prussia, ma anche quello d´Egitto, o quello di Occitania, il giallo di Siena, il verde d´India, il bianco di Spagna. E, inoltre, era ricorso al nero Roma e al bianco di Titanio, colori assoluti, fino al blu oltremare e alla terra d´ombra, per dei pastelli che sembravano appunto ombrati come delle acquetinte. Aveva imparato a lavorare la lastra di rame o di pietra, raschiando e disegnando, aprendo il giusto varco al colore, che avrebbe invaso il foglio e creato il miracolo dell´immagine, la magia dei segni.
Andrea osservava tutti gli effetti mirabili di questa poesia dipinta, le linee azzurre con un blu più intenso in lontananza, proprio al confine tra cielo e mare, oppure la luce solare che quasi rende pure le onde, proprio come l´oro bizantino puro con i suoi ventiquattro carati, oppure ancora le ampie chiazze immote, quasi correnti calde nell´infinità marina manco fossimo dalle parti dei Sargassi.
Non era affatto necessario assistere al baluginio della Fata Morgana, al sorprendente effetto marino che a pochi fortunati si mostra, in giornate di particolare luminosità, sulle acque che si agitano incessantemente tra Scilla e Cariddi. Il fenomeno, conosciuto almeno sin dai tempi lontani dei Normanni, che così lo battezzarono facendo ricorso a una figura della mitologia celtica, in giorni assolutamente tersi tende a manifestarsi ancora oggi, facendo specchiare sulla superficie piatta porzioni di cielo e paesaggi lontani, grazie a un magnifico effetto di rifrazione tra i vari strati dell´atmosfera.
Non era affatto necessario, per Andrea, ricorrere alla Fata Morgana per assaporare la bellezza dei dipinti di Piero. Sulla superficie piatta delle acque si specchia un´ampia porzione di cielo o appare una luna nascente, al limite di tenui azzurrini, simili a zaffiri orientali, che non sai più se appartenenti al mare o al cielo.
Forzando l´immaginazione, Andrea sperava di vedere materializzarsi da quelle acque calme qualche ondina, proveniente direttamente da Asgard, la leggendaria città nordica dell´arcobaleno: per amore degli uomini, esseri capaci di procurare tanto dolore ma anche tanto affetto, l´ondina, con la treccia bionda, senza potere più tornare indietro, proprio come Rusalka nell´opera musicale di Dvorak, sarebbe emersa dalle acque e sarebbe andata a vivere con il suo uomo, siciliano.
Appariva simile a quello di Rusalka il destino di Aniya. Tra le due donne c´era un´accentuata somiglianza, tutta esteriore, legata al colore dei capelli e alla maniera di annodarli; c´era anche una diversità nelle fattezze e nei lineamenti, molto più dolci e sereni in Aniya, come in tutte le donne slave o andaluse. Eppure le due donne avevano attraversato esperienze simili. Avevano percorso un lungo cammino, che non permetteva loro di tornare indietro: per amore di un uomo si erano trasformate, mettendo da parte le antiche consuetudini, per andare a vivere, come nel caso di Aniya, nella terra impareggiabile delle antiche leggende e dei miti greci, nella terra di Eolo e dei Ciclopi, di Proserpina e di Colapesce.
Nella mente di Andrea a poco a poco si insinuava un desiderio. Il giovane si era ripetutamente soffermato ad ammirare un pastello di Piero: l´opera rappresenta il pittore stesso mentre osserva la sua modella, con le due figure distanti tra loro e immerse in uno spazio senza tempo, in un vuoto assoluto, quasi a condensare tutta la realtà in quel pastello. Più Andrea guarda quel pastello, più immagina che Piero riproduca la sua Aniya in un dipinto. D´altra parte la pittura non è forse esattamente come la scrittura? Non accarezza il pittore, con il pennello o con le dita imbrattate di colore, il soggetto della sua opera? E il romanziere non accarezza forse con la scrittura la donna protagonista dei suoi racconti? Non è forse la sensazione di sensuale godimento, di furtiva carezza quella che si impadronisce dello scrittore che avvolge Aniya con le sue parole, di Neruda che canta la sua donna, di Modigliani che tratteggia la figura allungata della sua modella, di Degas che dipinge un nudo femminile, del pittore irrequieto che sceglie come sua Musa una fanciulla ventenne, lui sessantenne, e la rende protagonista delle sue opere e della sua vita, profondamente riamato.
Di sicuro Piero avrebbe espresso tutto il suo sentimento poetico, pronto a coniugare la dolcezza delle immagini con la sofferenza della vita, nel volto della donna, nelle fattezze di Aniya.
E se lo immaginava subito Andrea l´olio su tela, osservando i riccioli biondi mentre si stagliano sullo sfondo delle infinite sfumature di azzurro, che non fanno altro che rappresentare il Mediterraneo, il calmo e piatto centro del mondo, da sempre. L´azzurro, il meno azzurro e il più azzurro danno voce al respiro del mare nostro: te lo fanno sentire questo respiro, quasi respiro umano che si muove da una riva all´altra, dalle sponde levantine di Smirne e di Rodi fino a Gibilterra e all´ultimo lembo di Spagna, dalle spiagge di Misurata e di Leptis Magna fino alle coste di Punta Corvo e di Capo Scalambri, nel territorio di Rosacambra.
In queste spiagge, in questo mare Piero è venuto a naufragare. E´ l´Odisseo che è tornato non per fare riposare le stanche membra, ma per attingere, come Anteo, la forza primigenia ogniqualvolta tocca la sacra terra. E´ tornato per alimentarsi di immagini rese in maniera sempre più rarefatta, di silenzi che incantano con la loro magia, di spazi infiniti non interrotti da alcuna siepe e di fronte a cui l´animo rimane in una sorta di mistica sospensione, come succede solo in Oriente ai danzatori dervisci o in Occidente nel Sid, il paradiso celtico dei Druidi.
Ed eccolo ancora una volta questo mare, dalle acque tranquille, che hanno osservato la storia e le storie rimanendo impassibili e tornando tranquille, dopo avere inghiottito vele e cannoniere, triremi e sciabecchi, uomini e tesori, bronzi ellenistici e sculture bizantine. Eccolo ancora questo mare, sempre presente nell´opera di Piero, che ne riproduce la vita, il continuo palpitare, la luce così importante in ogni momento, all´alba come al tramonto, di giorno come al crepuscolo. Eccolo ancora questo mare, che unisce Oriente e Occidente, anche quando i suoi popoli non vogliono unirsi. Genovesi si sono insediati a Galata, di fronte al Fanar abitato dai Greci e sulle rive del Bosforo, come i Bizantini, con il generale Belisario, si sono stabiliti a Caucana, nelle terra abitata da Piero e nel priorato di Rosacambra, prima che questo venisse istituito.
Aniya dall´Occidente estremo è arrivata in Oriente, quindi nella più grande isola del Mediterraneo, inseguendo i suoi sogni giovanili o, sicuramente, il suo destino irrequieto, trascinata dal mistero dell´isola del fuoco e del mare.
Adesso Aniya sta per essere rappresentata, con l´arcobaleno dei colori della tavolozza di Piero, dinanzi a questo mare che, comunque, è segno di unione, di vita, di amore: tra le sue mani Piero colloca un fiore rosso, tipico della sua arte, un ibisco, il fiore delle coste siciliane, sinonimo di sensualità, di vita, di amore. I lineamenti delicati, rosei come le rose di Pieria, di cui non è difficile immaginare il profumo, sono da Piero incorniciati dalle ciocche d´oro, quasi scomposte dalla brezza del Mediterraneo; il corpo si lascia intuire, grazie alle dense pennellature, al di là delle plissettature della veste di seta, con le increspature che seguono l´andamento delle anche ben tornite e dei seni piccoli, ma turgidi e ben proporzionati come rosea corona attorno ai capezzoli di seta. D´altra parte non sono piccoli i seni della Venere di Milo o della Venere Italica del Canova, di fronte ai quali quelli di Aniya non hanno nulla da invidiare?
Andrea nella sua fantasia adesso osserva con attenzione la tela: per lui è finalmente completa. E´ un´opera inondata di luce, di temi azzurrini, complementari e speculari all´oro dei capelli di Aniya e al purpureo dell´ibisco.
Piero è riuscito a catturare e a imprigionare la luce nella sua tela, con la sapiente mistura di bianco e di lapislazzuli, tanto che l´animo dell´osservatore perviene facilmente a una forma di atarassia, di sognante tranquillità germogliata dalla tempesta di sfumature cromatiche di grande purezza. Non è un paradosso se Piero è riuscito a realizzare l´impossibile. Nella terra dei paradossi e dei violenti contrasti il fuoco si mescola con la neve, la lava si congiunge con il mare, i torrenti straripano e devastano campi resi arsi dal sole quasi perenne, l´amore e la passione si trasformano facilmente in morte. Eppure il poeta, il musico, il pittore riescono a trasformare questa realtà a volte drammatica, sono capaci di mitigare la violenza dei sentimenti, pervengono a opere di grande tensione artistica e di una bellezza che istilla piacere e calma nell´animo. Godimento e senso, oro e rosso, luce e ombra, colore e disegno vengono mescolati nell´opera di Piero, trasformati e resi particolarmente splendenti da quella intensa luminosità che solo nel meriggio siciliano e grazie alle pastose pennellate dell´artista puoi avere l´occasione di gustare.
Lo stesso Goethe, di fronte a una tela del genere, trasportato da quella piena luminosità di mare, di cielo e di fanciulla, forse si sarebbe astenuto dall´esclamare "Mehr licht!", "più luce", quando si spense un giorno di marzo del 1832, a mezzogiorno.