SCOGLITTI - GELA: A 73 ANNI DAL 10 LUGLIO 1943 PRESENTIAMO DUE CONTRIBUTI DEI PROFF. FRANCESCO EREDDIA E ANTONIO PALUDI SULLO SBARCO ALLEATO A SCOGLITTI E A GELA.





"DOPO LO SBARCO ANGLOAMERICANO:
LA RIPRESA DELLA VITA CIVILE A VITTORIA " di Francesco Ereddia
1) - POZZALLO 10 luglio 1943 - ore 9:30
Telegramma a:
Carabinieri Gruppo Ragusa
Stazione Carabinieri Comiso
Compagnia Carabinieri Modica
LARGO COSTA POZZALLO SOSTA CONVOGLIO NAVALE NEMICO CON MEZZI SBARCO PUNTO
Maresciallo Passarello
2) - RAGUSA 10 luglio 1943 - Telegramma per Ministero Interni /Gabinetto - Roma - Precedenza assoluta su tutte le precedenze
n° 2425 - Gab/ Stanotte numerosi paracadutisti stati lanciati territorio Acate Vittoria et altipiano Ragusa fra Genisi et Comiso alt Stamane preceduto bombardamento navale nemico effettuato sbarco levante Pozzallo et Punta Braccetto comune Vittoria alt Popolazione calmissima
Prefetto Moroni
***
Alle ore 3:45 del 10 luglio avvenne lo sbarco a Scoglitti. Veniva sbarcata la 45° Divisione di
Fanteria, comandata dal maggior generale Troy Middleton; comandante dell´artiglieria era il generale di brigata Raymond S. McLain; comandante delle forze navali il contrammiraglio John L. Hall; comandante del corpo d´armata il tenente generale Omar Bradley.
L´attacco durò quasi un´ora: gli americani catturarono con facilità la batteria di cannoni di Capo Camarina, mentre le ruspe andavano su e giù lungo la spiaggia a scavare fosse e ripari. Il generale Bradley pose il suo comando nella caserma dei carabinieri di Scoglitti: nella piazza del paese vennero radunati i soldati italiani fatti prigionieri.
Alle 14 circa le prime due camionette americane entrarono a Vittoria dalla via Milano, scortate lungo tutta la strada da un vigile urbano. Quando i militari americani giunsero all´altezza della scuola elementare, che da parecchi mesi era stata trasformata in alloggiamento tedesco, dall´edificio cominciarono a sparare. Gli americani si appostarono dentro il fondaco che si trovava nell´attuale Piazza Italia (ad angolo con l´odierna Via Dell´Acate) e da lì presero a rispondere al fuoco. Dopo un po´ l´ultima debole resistenza tedesca venne eliminata.
Possiamo immaginare la confusione e lo smarrimento che regnarono a Vittoria, come nelle altre città piccole, medie e grandi della Sicilia, nelle ore immediatamente successive allo sbarco alleato. Smarrimento e confusione (oltre che tra i soldati italiani messi a difesa della linea costiera anche e soprattutto tra la popolazione civile) che si traducevano in angoscia per chi ricopriva cariche istituzionali o si era compromesso con il regime fascista. Era un´intera comunità, quella vittoriese, che si ritrovava improvvisamente in prima linea e si confrontava con la violenza della guerra totale.
In quella situazione caotica, nella latitanza delle istituzioni, il compito di stabilire un ponte tra la popolazione e gli occupanti fu assunto immediatamente a Vittoria da un esponente del clero.
« Eccellenza Rev/ma, i paracadutisti insieme a forze sbarcate sono entrate trionfalmente a Vittoria il giorno 10 luglio. Nel dopo pranzo vi fu una certa sparatoria di prevenzione e di parata. In Piazza Vittorio Emanuele [l´attuale Piazza del Popolo] si svolsero episodi di fraternità espansiva e dimostrativa. Tutto il nostro clero secolare e regolare diede prova di coraggio e di costanza; solo i Padri Cappuccini si erano squagliati pochi giorni prima non potendo soffrire le frequenti incursioni [aeree] delle due settimane precedenti ... I Vicari cooperatori della Matrice si sono trovati più pronti dei Cappellani militari nel cercare colle forze armate e tumulare i cadaveri di soldati italiani abbandonati sui campi ... Subito l´indomani dell´invasione le autorità americane mi mandarono a chiamare, desiderando vedermi: sono andato insieme al commissario di P.S. Il Colonnello Story mi riceveva con le seguenti parole: ´Sono contento di fare la vostra conoscenza e di mettermi in relazione con la autorità religiosa di questa città. Abbiamo avuto istruzioni dal Governo Americano di seguire le direttive del Papa e non vogliamo fare sbagli; perciò siamo contenti di fare la vostra conoscenza e collaborare insieme. Voi e tutto il Clero godete di già [del]la più ampia libertà, non porterete alcun segno o distintivo, basta il vostro abito. Le chiese saranno rispettate e aiutate, e se per caso succederà qualche danno contro il nostro volere, siamo pronti a ripararlo. Dite alle suore dei diversi conventi che stiano tranquille e contente, che noi le difendiamo e faremo tutto per loro´. Alle parole sono seguiti i fatti, e noi si gode piena libertà. Non si è avuta nessuna molestia e nessun minimo disturbo nelle chiese, anzi si è ripristinato il suono delle campane come nell´anteguerra. I soldati cattolici vengono ad ascoltare la messa e a comunicarsi dopo essersi confessati da me ».
Questa relazione inviava all´indomani dello sbarco al vescovo di Siracusa don Raffaele Cassibba, arciprete della Chiesa Madre di S. Giovanni Battista.
Nato a Vittoria nel 1876, era emigrato ancora ragazzo negli Stati Uniti perché rimasto orfano di entrambi i genitori. Lì assunse l´abito talare e fece costruire una chiesa con annessa casa canonica ad Hazleton, presso Boston. Rientrato in Italia, nel 1933 era stato nominato dal vescovo di Siracusa vicario foraneo e parroco della Chiesa Madre di Vittoria, dove esercitò le sue funzioni fino al 1953. Infaticabile restauratore delle chiese di San Francesco di Paola, di San Paolo, di San Biagio e di Santa Maria delle Grazie, molto vicino ai problemi di tutta la comunità vittoriese, anche e soprattutto dopo lo sbarco alleato diede ulteriore prova del suo carattere fattivo e intraprendente.
C´è, all´inizio della relazione, una nota polemica nei confronti dei Cappuccini, il cui convento era in Piazza Calvario, da dove per mesi i frati avevano visto transitare sulle loro teste i caccia e i bombardieri anglo-americani che, partendo dalle basi africane, andavano a colpire anche in territorio ibleo i più importanti obiettivi militari italo-tedeschi (come, ad es., la guarnigione di Pozzallo e la base di Comiso). Quelle incursioni avevano fatto vittime anche fra i civili: in una nota della prefettura di Ragusa al Ministero dell´Interno, ad esempio, datata 23 giugno 1943 (cioè due settimane prima dello sbarco), il prefetto Moroni aveva compilato un quadro riassuntivo dei danni provocati alle persone da una delle tante azioni aeree alleate. Nella nota, avente per oggetto "Donne e bambini uccisi o feriti da mitragliamenti effettuati da aerei nemici e da ordigni esplosivi lanciati dagli stessi aerei", Moroni informava il suo Ministero che erano stati uccisi cinque bambini, tre a Chiaramonte e due a Pozzallo, e due erano rimasti feriti gravemente, uno a Pozzallo e uno a Santa Croce Camerina. A queste vittime di quell´ennesima incursione bisognava aggiungere una donna uccisa per mitragliamento a Ispica.
L´apertura cordiale e l´assoluta disponibilità, poi, manifestate a don Raffaele Cassibba dal colonnello Story, e da quello dettagliatamente illustrate nella sua relazione al vescovo, rientravano in effetti in quella che fu detta la "posizione speciale del Vaticano", cioè il grosso spazio assegnato dagli Stati Uniti agli interessi del Vaticano in Italia. Il Vaticano era l´unica forza politica che Roosevelt – nei mesi precedenti lo sbarco – era disposto a riconoscere in Italia. E non c´è dubbio che in questa direzione i rappresentanti del clero americano avevano esercitato una certa influenza sui piani politici del presidente.
Del resto, l´arciprete Cassibba era vissuto tanti anni in America a stretto contatto umano e pastorale con le comunità italo-americane, così che la sua figura sembrava incarnare in modo straordinario quelle "tradizioni di amicizia tra Stati Uniti e Italia" su cui insisteva fin dalla metà del 1942 nelle sue trasmissioni radiofoniche settimanali (la rubrica si chiamava La voce dell´America) un siculo-americano di prestigio quale Fiorello La Guardia. Quest´ultimo, assieme ad un antifascista di primissimo piano, Gaetano Salvemini, rifugiatosi in America come perseguitato politico, premeva perché non fosse imposta una pace punitiva all´Italia, come invece volevano gli inglesi, e vi si assicurasse uno stabile assetto postbellico.
A questo prodigarsi di don Cassibba per la popolazione vittoriese faceva eco il vescovo di Siracusa in una lettera pastorale del 22 luglio 1943, pochi giorni cioè dopo lo sbarco:
« Come posso soffermarmi in argomenti di letizia, quando il turbine della guerra ormai ci avvolge nelle sue spire e gli animi hanno estremo bisogno di essere fortificati, incoraggiati, sorretti a speranza di giorni migliori? Nel dolore più che nella gioia sento di dovere essere vicinissimo a tutto il mio clero, a tutto il mio popolo, e comprendendone le sofferenze, le trepidazioni, vorrei potere essere il pio samaritano che si piega a versare balsamo, a portare aiuto ».
Certo, l´impegno del nostro arciprete non poteva permettersi simili slanci evangelici e poetici, se non altro perché troppo pervaso di prosaica quotidianità. Come, ad esempio, quello profuso da lui – alla testa dei vicari della sua chiesa – per seppellire, a poche ore dallo sbarco, i cadaveri dei soldati italiani deceduti negli scontri armati, come l´arciprete riferisce nella sua relazione al vescovo.
Già a due settimane dallo sbarco fu organizzata compiutamente un´amministrazione militare alleata nelle province di Siracusa e di Ragusa. Qui, infatti, si insediò subito un nucleo dell´AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory, "Governo Militare alleato del Territorio Occupato"), che era diviso in sei sezioni (legale, finanziaria, annonaria, sanitaria, di pubblica sicurezza, delle proprietà del nemico). Gli ufficiali inglesi ed americani,incaricati di occuparsi degli affari civili (la loro sigla era CAO, Civil Affairs Officers), assunsero le funzioni di riorganizzatori e controllori delle amministrazioni locali subito dopo l´entrata delle truppe combattenti nei paesi loro assegnati e procedettero alla nomina di amministratori provinciali e comunali.
E proprio a uno di questi ufficiali di stanza a Vittoria, il capitano Harris, don Raffaele Cassibba inviava subito la prima di tante richieste scritte, forte oltretutto della sua conoscenza dell´inglese acquisita negli anni della permanenza in America. "Sir, the Sacred Heart Church suffered some damage through the shooting by the American soldiers, when they came in the town. They believed that some Germans were hidden in the Church" ("Signore, la chiesa del Sacro Cuore ha subito alcuni danni in conseguenza dei mitragliamenti effettuati dai soldati americani, quando sono entrati in città. Ritenevano che nella chiesa si fossero nascosti dei tedeschi").
Ma non soltanto dei danni materiali si preoccupava il nostro arciprete: erano i guasti morali, le sofferenze degli uomini che gli stavano più a cuore. C´erano a Vittoria, come in altre città e paesi della Sicilia, tanti soldati italiani, lontani dalle loro famiglie, che non avevano più notizie di loro. Erano formalmente prigionieri delle truppe di occupazione, ma per don Raffaele erano semplicemente poveri esseri umani travolti dalla bufera della guerra e dell´invasione, uomini che adesso desideravano soltanto fare rientro nelle loro case e dimenticare gli orrori della guerra. Così l´infaticabile parroco prendeva carta e penna e faceva le sue richieste. "Capt. Chart, I write to You again for a case of charity ("Capitano Chart, Le scrivo di nuovo per una questione di carità"). Era così che cominciavano tutte le sue lettere. Ci sono a Vittoria - questo scriveva al cap. Chart don Raffaele - due soldati siciliani , il sottotenente Giorgio Di Gregorio e il maresciallo Pietro Aiello, nativi di Corleone, che non prendono ormai da tempo la paga e non hanno niente da mangiare (now they have no pay not anything to eat). ["Lei pensa che potrebbe essere una cosa di buon cuore ("Do You think that would be a kind thing) mandarli a casa , dove essi potranno lavorare e guadagnarsi da vivere (where they can work and earn their living)?". E il capitano Chart gli risponde a stretto giro di posta. "Where is Corleone?", chiede anzitutto il capitano; e poi gli assicura che darà a ognuno un lasciapassare (I will give a pass to anyone) perché facciano ritorno alle loro case (to return to their homes). ]
A don Cassibba, com´è comprensibile, facevano capo tutti coloro – ed erano tanti in quei drammatici momenti – che avevano bisogno di aiuto. La madre superiora dell´Orfanotrofio della Divina Provvidenza (che si trovava dove attualmente c´è l´Istituto del Sacro Cuore, in via Castelfidardo), in una lettera del 10 settembre – erano passati due mesi esatti dallo sbarco - gli illustrava la difficile situazione economica in cui versavano. "Durante l´estate le ragazze [le orfanelle ospiti dell´istituto] sono state senza calze perché, avendone un solo paio, lo risparmiano per uscire e per andare in chiesa. Ma nell´inverno si potrà resistere a vederle tremar di freddo, sprovviste ancor di maglie e di vesti pesanti?". Finiti in quei tre anni di guerra – scriveva suor Maria Serafica Raniolo – i risparmi di cui la comunità disponeva, non c´era alcun modo adesso di provvedere alla biancheria e agli indumenti per le orfanelle. "Con piena fiducia di essere compatita e soccorsa – concludeva la sua richiesta d´aiuto suor Maria Serafica - porgo le più vive scuse per aver inoltrato la presente domanda, e ringrazio e ossequio religiosamente".
D´altra parte, il nostro arciprete già da prima dello sbarco era il responsabile del Comitato vittoriese per l´alimentazione, che faceva capo alla Sezione provinciale di Ragusa, e nelle settimane successive all´invasione alleata si mosse, di concerto con la Croce Rossa Americana e con il Commissario Prefettizio del comune di Vittoria, per creare un Comitato per l´Assistenza Sociale. Le maggiori attenzioni erano riservate all´infanzia: si cominciarono così a distribuire cibo e indumenti ai bambini. Del Comitato facevano parte, oltre all´arciprete Cassibba, il presidente della Società Operaia di Mutuo Soccorso "Rosario Cancellieri" e una maestra, Lucia Segreto.
E in riferimento all´infanzia, così profondamente traumatizzata dai terribili eventi bellici, c´è da dire che don Raffaele, in questo sostenuto dal capitano Chart dei civile officers, non potendo far riaprire le scuole perché ci si trovava in piena estate, già ai primi d´agosto del ´43 istituì quelle che americani e inglesi chiamavano Sunday Schools, una sorta di catechismo domenicale che aveva però lo scopo di riunire i bambini e dar loro un importantissimo sostegno psicologico in quei drammatici frangenti.
FRANCESCO EREDDIA
" LA BATTAGLIA DIMENTICATA, ONORIAMO GLI ITALIANI CADUTI NELLA BATTAGLIA DI GELA: ORE 2,45 DEL 10 LUGLIO 1943." di Antonio Paludi.
GLI ANTEFATTI DELL´OPERAZIONE "HUSKY"
Il 13 maggio 1943, le ultime truppe italo – tedesche in armi della Tunisia si erano arrese agli anglo – americani. Quando ancora in Tunisia si combatteva, tra il 14 e il 24 gennaio 1943 si svolgeva a Casablanca, in Marocco, una conferenza interalleata, dove i capi politici e militari britannici e americani, guidati da Churchill a da Roosevelt, concordarono il piano delle future operazioni. Lo Stato Maggiore americano protendeva per uno sbarco in Francia, per sferrare un attacco diretto alla Germania. Lo Stato Maggiore britannico, invece, riteneva troppo forte la presenza di truppe germaniche sul territorio francese e temeva una disfatta. Quindi spinse per un attacco contro l´Italia, il "ventre molle" d´Europa. Gli obiettivi strategici erano il dominio completo nel Mediterraneo, l´uscita dalla guerra dell´Italia e l´immobilizzo di notevole aliquote di forze tedesche nel territorio italiano, alcune delle quali sarebbero dovuto venire proprio dalla Francia. Alla fine della discussione fu stabilito quale sarebbe stato il primo lembo d´Europa da liberare; la Sicilia.
Terminata vittoriosamente la campagna di Tunisia, i capi Alleati si riunirono nuovamente a Washington, dal 12 al 25 maggio, per mettere in pratica ciò che era stato deciso a Casablanca. All´operazione di sbarco in Sicilia fu attribuito il nome di "Husky", come il cane da slitta siberiano. La direzione delle operazioni fu assunta dal generale americano Eisenhower. Il generale inglese Alexander ebbe il comando delle forze terrestri. Dopo aver occupato, senza grande fatica, le isole di Pantelleria, Lampedusa, Lampione e Linosa, gli anglo - americani partirono verso le spiagge della Sicilia Sud orientale.
I FATTI
Soldati, sottufficiali e ufficiali italiani fatti prigionieri dagli americani a Gela, nei giorni successivi al 10 luglio del 1943, furono internati a migliaia nei campi di prigionia del Nord Africa, a centinaia di chilometri dal proprio Paese, lontani dai propri genitori i quali, a fronte della battaglia combattuta così duramente, erano inconsapevoli se i propri cari fossero, incolumi o feriti, sopravvissuti o morti o dispersi. Immaginiamo lo stato d´animo sofferente di questi giovani combattenti che si erano battuti con valore e coraggio, lasciando sul terreno migliaia di compagni morti, altri feriti non solo nel fisico, costretti, come raccontano i superstiti, a subire, dagli altri prigionieri dell´ormai ex regio esercito, l´umiliazione di essere additati come traditori, vigliacchi, codardi, fuggiti senza aver combattuto davanti al nemico che calpestava il sacro suolo della patria. Invece non era così, perché se tradimenti ci furono, certo non furono perpetrati dai soldati schierati a Gela, a Butera, a Scoglitti, a Caltagirone, a Niscemi, a Licata a Santo Pietro, a Comiso, né tantomeno dagli ufficiali e sottufficiali che li comandavano. Tutti anzi si batterono senza risparmio d´energia, con coraggio e valore contro forze sovrastanti, più modernamente equipaggiate e appoggiate da una forza aerea che contava migliaia di veicoli e da una flotta così potente e numerosa che avrebbe tolto il respiro solo a guardarla, lì nel golfo di Gela.
La Sicilia fu aggradita, da Inglesi e Americani, con due forze navali d´invasione: la East Task Force, composta da 818 navi inglesi, al comando dell´ammiraglio Ramsay, doveva condurre l´armata del generale Montgomery su cinque spiagge della costa sud-orientale, comprese tra capo Ognina e punta Castelluzzo, e la West Task Force, al comando dell´ammiraglio Hevitt, forte di 580 navi e 1120 mezzi da sbarco, doveva favorire lo sbarco della 7a Armata americana del generale Patton sul litorale occidentale, tra Torre Braccetto e Torre di Gaffe, quindi Gela e Licata, in questo ristretto scacchiere della Sicilia sud orientale gli anglo - americani avevano concentrato 280 navi da guerra, ognuna armata con otto cannoni da 127 mm e quindici da 152 mm, sistemati su tre torri trinate a prua e due a poppa. Ogni cannone poteva sparare un proiettile di 50 Kg, fino a 25 Km di distanza, alla velocità di 925 metri al secondo. Inoltre gli anglo – americani mettevano in campo 181.000 uomini, 600 carri armati, 14.000 veicoli, 1800 cannoni. Una forza poderosa contro cui gli italiani potevano opporre, sul fronte marino, una flotta di tutto rispetto, a Taranto erano dislocate due corazzate, la Duilio e la Doria, un incrociatore e due cacciatorpediniere. A La Spezia e a Genova erano a disposizione altre tre corazzate, l´Italia, la Roma e la Vittorio Veneto, tre incrociatori, otto cacciatorpediniere e altre piccole unità.
Sul fronte terrestre erano a disposizione 180.000 uomini italiani, da oriente ad occidente della Sicilia: la "Napoli", la "Livorno", "l´Asietta" e "l´Aosta", supportate dai carri del 131° Reggimento, I FIAT 3000 e i Renault 35, divisi in compagnie mobili e 28.000 tedeschi, dotati di forze corazzate che disponevano del tecnologico carro "Tigre", l´unico capace di competere con gli Sherman americani. Le Forze Armate in Sicilia erano comandate dal generale Alfredo Guzzoni, avvicendato al generale modenese Mario Roatta nel mese di maggio del 1943. Guzzoni era un ufficiale intellettualmente onesto e professionalmente capace, intorno al comandante in capo agiva una rete di ufficiali del Regio Esercito che faranno del loro meglio per difendere l´isola, alcuni di grande valore e strategicamente preparati.
A Gela Guzzoni aveva schierato il 429° Battaglione costiero, comandato dal maggiore Arnaldo Rabellino, l´unità era disposta principalmente lungo le linee di fortini costruiti in prossimità delle spiagge, collocata anche al di fuori dell´abitato, verso la diga e oltre, fino ad una seconda linea di bunker che sovrastava Gela e giungeva alle alture del Castelluccio. A loro toccò in sorte di essere i primi a dover affrontare la più imponente invasione del vecchio continente mai tentata fino a quel momento.
ARRIVANO
Il movimento della flotta anglo - americana fu segnalato dai ricognitori italiani alle ore 16,30 del 9 luglio e confermato al Comando italiano dell´isola da quello tedesco alle 19.00. Alle 22,00 il Comando italiano della Sicilia comunicò a tutte le postazioni militari l´allarme generale. A Gela furono evacuate le abitazioni più a ridosso della spiaggia e richiamati tutti i soldati al loro posto. La notte del 9 luglio la forza d´invasione puntò verso i suoi obiettivi, definendo così il tratto di costa che divenne il campo della battaglia di Gela. La 7 a Armata USA, puntava a sbarcare quasi 70.000 uomini appoggiati da 250 mezzi corazzati tra Punta Braccetto e Punta Due Rocche, lungo un fronte di 58 Km, gettando nella mischia la 45a Divisione e il "Grande Uno Rosso". Il piano prevedeva il lancio nelle immediate retrovie della linea di sbarco di unità di paracadutisti, incaricati di conquistare le postazioni e gli snodi stradali strategici per impedire un´eventuale controffensiva e seminare il panico, sconvolgendo i collegamenti nemici. Alle due del mattino sarebbe iniziato lo sbarco vero e proprio. Nello stesso quadrante Alfredo Guzzoni poteva opporre, tra Scoglitti e Gela, i quattro Battaglioni dei Reggimenti costieri 178° e 134° schierati sulle Spiagge, con in tutto dieci batterie, di cui solo nove efficienti: sei batterie con cannoni da 75 del 1906, tre erano da 100, più moderni. Dietro questa sottile linea c´era il Gruppo mobile E, di stanza a Niscemi, forte di una dozzina di carri Renault 35, appoggiati da semoventi 47/32 e da altri carri leggeri, una compagnia di bersaglieri e una autotrasportata. La Divisione Livorno e la Divisione Hermann Göring erano, infine, le due unità schierate sul terreno in modo ideale per tentare un contrattacco, partendo rispettivamente da San Cataldo / Mazzarino e Caltagirone. Altri due battaglioni costieri presidiavano il territorio di Licata.
LA BATTAGLIA DI GELA
A Gela sono le 2,00 del mattino, nelle campagne si sente sparare da molte ore e nel cielo vanno e vengono numerosi gli aerei. Gli americani sono da qualche ora sul territorio siciliano perché Patton ha ordinato un lancio di paracadutisti, i quali vuoi per la contraerea italiana fortissima, vuoi per le avverse condizioni del tempo, soffia un vento (la mitica Provenza) a 50 Km orari, gli aerei, per queste ragioni, sbagliano punto di lancio e le malcapitate unità si disperdono su un´area di 120 km quadrati, diventando facile preda dei carabinieri italiani, che partono subito alla loro ricerca. I cittadini di Gela quella notte, nonostante in vigore una specie di coprifuoco, vanno a letto molto tardi, convinti che quella notte non sarebbe accaduto niente. I soldati sono tutti al loro posto, fumano, chiacchierano e guardano il mare nero dal fortino di Porta Marina, da quelli ubicati nel giardino della villa comunale, dai bunker di Capo Soprano e da quelli che sovrastano la diga, la tensione si tocca con le mani perché sanno che sta per accadere l´irreparabile e, forse, per molti di loro quella sarà l´ultima. Una pattuglia di Finanzieri viene inviata, dal loro comandante, a dare un´occhiata più da vicino alla spiaggia. La comanda l´appuntato Mario Vitale che decide d´ispezionare il tratto cha va dal vecchio pontile al caricatore. Ad un certo punto i componenti la pattuglia sentono qualcosa strano, un rumore subito interpretato che proviene dal mare, mandano immediatamente indietro la guardia semplice a dare l´allarme al Comando. Rimasti sul posto l´appuntato Vitale e il brigadiere Arena prendono accordi per trovare la conferma della loro intuizione, del loro sospetto. Con calma, come se proseguissero il pattugliamento, i due militari raggiungono un canneto, allontanandosi così dalla spiaggia. Da questa nuova posizione impugnano il loro fucile ´91, aprono il fuoco in direzione del misterioso rumore. Due colpi secchi nella notte. Seguono due secondi di silenzio, poi dal mare sale uno spaventoso boato, seguito da un uragano di fuoco, luci, razzi. Enormi vampe infuocate scatenate nel cielo di Gela, mentre decine e decine di mezzi da sbarco sparano in direzione di quel canneto simultaneamente. Il brigadiere Arena rimane gravemente ferito e morirà dopo qualche ora, mentre l´appuntato Vitale è colpito di striscio, ma riesce a mettersi in salvo sgusciando tra le canne.
Sono 2.45 i mezzi da sbarco americani si presentano davanti al pontile di Gela, scendono armati fino ai denti. I ranger del tenente colonnello William Orlando Darby, il I e il IV Battaglione, corrono sulla sabbia verso l´abitato. Li prende d´infilata il fuoco di due mitragliatrici, la prima spara dalla villa comunale e la seconda dal bunker di Porta Marina. Nel fortino c´è il caporalmaggiore Cesare Pellegrino, che si trovava lì per ragioni connesse al suo ruolo, è un portaordini, non ci pensa due volte s´infila nel bunker e apre il fuoco sugli invasori, facendo una vera e propria strage di nemici, fino a quando non verrà neutralizzato da un graduato di colore americano che ha aggirati la postazione. Quella notte fra gli italiani non ci sono solo eroi, qualcuno perde la testa e se la dà a gambe. Qualche postazione viene mollata senza ulteriore resistenza, ma nell´abitato si combatte ancora e si muore per la patria, spesso ingrata per questa gente. I Carabinieri prendono posizione nell´ex hotel Trinacria e aprono il fuoco sugli americani fino a quando non resteranno senza munizioni. Si muore davanti al Duomo, dove alcuni soldati italiani sono agonizzanti, lo scontro divampa anche vicino alla diga, presso contrada Grotticelli, tra il fiume Gela e il Dirillo. Vinta la resistenza dei Carabinieri che dopo aver perso un milite e finite le munizioni sono costretti alla resa. L´ultima resistenza è probabilmente quella del giovane tenente catanese Filippo Lembo, che con pochi uomini tenta di fermare il nemico nella centrale via Giacomo Navarra Bresmes. Ben presto i suoi soldati vengono colpiti, rimasto solo, continua a far fuoco con la pistola, fino a terminare i colpi. A questo punto cerca rifugio in un magazzino, dove viene raggiunto dai soldati americani e finito a colpi di pugnale, il suo corpo verrà sfregiato e mutilato. Alle prime luci del giorno capitola il bunker antistante il cimitero, difeso con ostinazione per tutta la notte dal tenente Giuseppe Gentile e dai suoi ragazzi con due mitragliatrici Breda, che tacciono solo quando l´ufficiale viene ferito a morte. Alle 6,00 del mattino il tenente colonnello Darby ha già comunicato a Patton di aver preso il controllo di Gela. In realtà non è vero, non ci riuscirà prima delle 9,20, quando l´ultima posizione italiana, quella di Capo Soprano, dovrà arrendersi di fronte agli americani che avanzano facendosi scudo con alcune decine di prigionieri italiani. Per scoprire, subito dopo, che la battaglia di Gela è appena cominciata.
SI COMBATTE CON EROISMO A SCOGLITTI
Intorno a Gela i Battaglioni costieri fanno molto di più del loro dovere: il 429° e il 134° del Reggimento costiero, comandati dal maggiore Arnaldo Rabellino, lasciano sul campo ben 17 ufficiali e 180 soldati, pari a poco meno del cinquanta per cento degli effettivi disponibili. A Scoglitti fanno del loro meglio anche il 178° e il 123° Reggimento costiero. La prima ondata americana investe il canale Mangiauomini alle 4,00 del mattina, accolti a cannonate dalle batterie costiere, anche qui, come in altri posti, il fuoco della flotta ha ben presto ragione dell´artiglieri dei difensori, che viene messa a tacere, anche perché ha una minore gittata rispetto a quelli delle navi americane. La resistenza italiana è ostinata, ma priva di adeguata copertura di artiglieria. Alle foce del Dirillo cadono con le armi in pugno tutti gli uomini del sottotenente Ciraulo, che rifiuta la resa. Poco dopo tocca il medesimo destino al tenente Bovio e al suo plotone, massacrati dai carri. Partecipano ai combattimenti anche i Carabinieri di Biscari e i militi della Guardia di Finanza, che lasciano sul terreno due caduti. Alle 14,00 del 10 luglio Scoglitti cade nelle mani americane. E´ morto combattendo il capitano Serra a Villa Comitini, con buana parte dei suoi uomini, stessa sorte per il tenente Sella e tutti i suoi quindici soldati, che difendevano il bunker di Case Cameni. L´ultima resistenza viene organizzata sulla strada che collega Santa Croce a Scoglitti. Qui il colonnello Primaverile resiste all´attacco dei paracadutisti che provengono dall´entroterra e alle avanguardie della 45a Divisione appena sbarcata. Il posto di blocco si dimostra un osso duro e resiste fino a quando non si esauriscono le munizioni. Gli assalti alle postazioni italiane costano agli americani una trentina di caduti, mentre i difensori lasciano sul campo tredici uomini tra morti e feriti, prima di capitolare alle 13.00.
LE MOSSE DI GUZZONI
Mentre i primi mezzi da sbarco giungono sulle spiagge siciliane, il generale Alfredo Guzzoni dirama gli ordini per un´immediata controffensiva. Le zone di sbarco americane sembrano subito le più aggredibili, considerate la dislocazione delle forze italo – tedesche. I tedeschi della Hermann Göring dovrebbero partire da Caltagirone alla volta di Gela, coadiuvati dalla Divisione Livorno e dal Gruppo mobile E di stanza a Niscemi. I primi a muoversi sono questi ultimi, agli ordini del capitano del 131° carristi Giuseppe Granieri che alle 3,00 del mattino riceve dal suo comandante, il generale Rossi, l´ordine di raggiugere Gela e di mettersi a disposizione del generale Mariscalco che comanda la XVIII Brigata costiera. Purtroppo Granieri non ha altre consegne: immagina di veder convergere su Gela altre unità, ma non ha indicazioni di alcun genere che possano consentirgli di coordinarsi con la Göring o la Livorno. Guzzoni, infatti, suppone che le unità giungeranno a Gela mentre la Brigata costiera sta ancora combattendo e che sarà il generale Mariscalco a coordinare un adeguato dispiegamento tattico del contrattacco. Sa di correre il rischio che i rinforzi arrivino tardi, con le difese costiere già travolte dagli americani. Tuttavia l´importante è impegnare subito lo scontro con l´avversario, non farlo ragionare, tenere sotto pressione la testa di sbarco, riprendere il controllo della piana di Gela e ributtare a mare gli Americani. Le truppe italiane divise in due tronconi avanzano, il primo con l´obiettivo di assalire Gela da nord est, discendendo da Niscemi e dall´aeroporto di Ponte Olivo, e percorrendo la statale 117, i reparti che vi partecipano sono: i Gruppi mobili E e H, il primo composto da 12 carri Renault 35, una compagnia cannoni con otto pezzi da 75/18 trainati da autoveicoli, una compagnia di fanteria costiera autotrasportata e una compagnia di bersaglieri motociclisti, comandato dal capitano Granieri, assistito dal tenente Navari. Il secondo, d´identica consistenza, forte di nove carri FIAT 3000, al comando del tenente colonnello Cixi, marcia da Caltagirone verso l´aeroporto di Santo Pietro, erroneamente chiamato dagli Americani di Biscari.
Dall´alto di Niscemi, base di partenza del Gruppo mobile E, si ha una bella vista sulla piana di Gela fino al mare. Mentre mettono in moto i motori dei piccoli Renault 35, i nostri carristi vedono bene l´inferno di fuoco che si scatena sulle spiagge, scorgono le sagome dell´immensa flotta che rovescia razzi e cannonate sui difensori: nonostante ciò ingranano la marcia, di tornante in tornante, scendono nella notte verso quel fuoco ardente, non immaginiamo con quale stato d´animo. Alle 6,00 del mattino Granieri e Navari sono quasi a Ponte Olivo, mentre il tenente colonnello Cixi e il Gruppo mobile H sono in vista di Santo Pietro.
Mentre intorno a Santo Pietro il Gruppo mobile H si scontra con i paracadutisti, la colonna di carri del Gruppo mobile E, guidata dal capitano Granieri e dal tenente Angelo Navari, è in vista dell´abitato di Gela e inizia l´attacco al perimetro difensivo americano. Gli avamposti americani scambiano quella nostra compagnia di carri leggeri per la divisione Hermann Göring, creando una comprensibile apprensione nel loro comando.
I CARRISTI DEL TENENTE NAVARI ALL´ASSALTO DI GELA
Nel frattempo i carri del Gruppo mobile E sono giunti in prossimità dell´abitato. Il giovane tenente Angelo Navari non è preoccupato dalla possibile resistenza delle unità americane che difendono il perimetro della testa di sbarco, ma dal tratto di terreno scoperto della piana di Gela che i suoi carri dovranno attraversare per raggiungere le prime case della cittadina, zona ormai inquadrata dai cannoni della flotta, guidati nel tiro da piccoli aerei in volo. Il tenente decide comunque di compiere una puntata in direzione del paese, eseguendo l´ordine ricevuto dal capitano Granieri, che per una provvisoria avaria al suo carro gli ha affidato la testa della colonna. I carri partono all´assalto e travolgono d´impeto i primi avamposti americani, assistiti validamente da una compagnia di bersaglieri. I ranger mollano subito i bassi rilievi che fronteggiano, da un chilometro di distanza, l´altura del Castelluccio, ancora in mano italiana, ma nel frattempo i cannoni del cacciatorpediniere Shubrick inquadra l´area su cui avanzano i bersaglieri e i carristi. Inizia un fuoco d´inferno a cui partecipa anche l´incrociatore Boise. L´effetto del bombardamento è micidiale: tre carri Renault sono danneggiati, un terzo dei bersaglieri viene massacrato, ma i superstiti continuano l´assalto, superando le linee difensive americane e irrompono nell´abitato. La situazione è molto confusa, i bersaglieri si attestano a difesa a ridosso delle prime case di Gela. La 2 a compagnia del Gruppo mobile E prende posizione troppo a ridosso delle linee americane e viene investita dal fuoco dei mortai con effetti micidiali, resta ucciso il sottotenente Ottavio Bazzoli Righini. I carri italiani arrivano sull´obiettivo uno alla volta e quindi incapaci di svolgere un´azione coordinata ed efficace. Lo stesso comandante, il capitano Granieri, dopo essere riuscito ad avviare il carro e a raggiungere il reparto, sotto il fuoco nemico, si rende conto dell´impossibilità di riordinare in modo razionale la sua compagnia. L´ultima linea difensiva americana corre lungo la ferrovia Gela Vittoria: qui i genieri statunitensi hanno approntato una serie di postazioni e di sbarramenti difensivi che i ranger sono costretti ad abbandonare sotto il fuoco italiano. Il primo carro a superare la ferrovia è quello del tenente Navari. Il mezzo improvvisamente si arresta. Il pilota scende e tenta con successo di farlo ripartire utilizzando la manovella esterna, ma non fa in tempo a rientrare, perché viene centrato dal fuoco nemico. Angelo Navari si affaccia dalla torretta e vede il suo pilota esamine. Chiude il portellone e senza esitazione riparte verso il centro di Gela, lungo l´attuale via Generale Cascino, allora via Carrubazza. Poco dopo transita il secondo carro Renault che giunge in vista di Porta Caltagirone, lo pilota il carrista Antonio Ricci, al comando del sergente Cannella. La visibilità, nell´abitato, diventa nulla a causa del fumo causato dagli spari dei cannoncini e dalle mitragliatrici. Per questa ragione i carristi, per ritrovare le coordinate spaziali e rendersi conto di quello che all´esterno sta succedendo, si devono fermare, scendere e poi ripartire. È quello che deve fare il carrista Antonio Ricci, ragazzo di 22 ani di Cerveteri, quando, perduto il contatto visivo con gli altri carri, il sergente Cannella è sotto shock e si rifiuta di scendere. Antonio, che è un giovane coraggioso, lo tranquillizza, poi aperto il portellone, salta fuori. Proprio in quell´attimo una pioggia di granate cade tutto intorno al carro e le schegge raggiungono il giovane carrista uccidendolo. Il sergente riparte rabbiosamente e supera porta Caltagirone, mentre il corpo del povero Ricci rimane adagiato in una cunetta. Imboccata via Giacomo Navarra Bresmes il carro deve arrestarsi sotto un diluvio di fuoco. Costretto alla ritirata, il sergente Cannella ritorna sui suoi passi, raggiunge di nuovo via Generale Cascino, ma all´incrocio tra questa e la circonvallazione per Vittoria, il Renault viene centrato da un colpo di cannone anticarro. Le lamiere rimangono squassate, da quelle ferraglie contorte e fumanti emerge stordito, ma vivo, il sergente Cannella. Barcolla in mezzo alla strada, mentre qualche gelese dalle finestre gli batte le mani e una giovane donna esce di casa soccorrendolo e abbracciandolo. Davanti a questa scena anche i militari americani, che lo hanno colpito, gli stringono la mano, prima di farlo prigioniero.
Intanto il tenente Navari continua, da solo, a seminare strage tra gli americani e sembra inarrestabile. I ranger se lo vedono passare davanti all´ex hotel Trinacria. Quel carro sembra invulnerabile e continua a farsi il vuoto davanti, sparando con la mitragliatrice. Qualcuno imbraccia un bazooka per fermarlo, il primo colpo va a vuoto. Il carro irrompe in piazza Umberto, arriva fin sotto la chiesa ed è ormai a 300 metri dalla spiaggia: ha tagliato a metà la testa da sbarco americana, abbattendo ogni difesa sul suo cammino. Il secondo colpo di bazooka colpisce il cingolo. Secondo testimonianze il Renault non viene colpito, ma si arresta all´improvviso, forse per un´avaria al motore. Il carro è immobile, Angelo Navari apre lentamente la torretta circondato da centinaia di armi americane spianate. L´ufficiale italiano affiora dal carro, si guarda intorno. Ha la pistola in pugno, si dice abbia sparato, altri sostengono che non abbia fatto in tempo. Di sicuro un colpo di fucile lo centra nella fronte.
CONSUNTIVO
Le unità italiane hanno operato da sole l´attacco contro posizioni tenute da forze enormemente superiori, raggiungendo risultati inimmaginabili per Guzzoni. Contro i piccoli carri Renault di Granieri e i modesti FIAT 3000 di Cixi, la flotta americana ha esploso più di 500 colpi in quattro ore, la 7a Armata Usa ha impegnato complessivamente un Reggimento di fanteria a Piano Lupo e due Battaglioni di ranger a Gela, oltre ai paracadutisti di Gorham e un numero imprecisato di mezzi corazzati, subendo costantemente l´iniziativa dei modesti gruppi tattici italiani, equivalenti, insieme, a un Battaglione di fanteria, supportato da soli 21 carri leggeri. Il limite dell´intera azione è stato il mancato coordinamento con le altre unità dell´Asse, che pure, poche ore dopo la ritirata da Piano Lupo e da Gela entreranno in scena, la Divisione Livorno e la Herman Göring.
I CRIMINI DI GUERRA
Ai poveri difensori di Gela toccò in sorte subire terribili quanto gratuiti crimini di guerra. I reparti della 45 a Divisione di fanteria americana, al comando del generale Middleton, erano sbarcati verso le 2,45 del 10 luglio, con l´ordine di occupare e presidiare gli aeroporti di Ponte Olivo, Comiso e Biscari. L´unità fu duramente impegnata nella battaglia di Gela e il 14 luglio raggiunse il perimetro dell´aeroporto di Santo Pietro (noto agli americani come aeroporto di Biscari). La compagnia comandata dal capitano John Compton rimase a lungo inchiodata dalla tenace resistenza opposta dai difensori italo – tedeschi, lasciando sul campo una dozzina di uomini. Alla fine, dopo aver subito un intenso bombardamento di artiglieria, il presidio italiano fu costretto alla resa: 36 soldati italiani, uscirono con le mani in alto dalle loro posizioni. Proprio il capitano Compton, poco dopo, ordinò a un plotone della sua compagnia di prendere in consegna i prigionieri e di allinearli di fronte ad una fitta forra. Quando la fila degli inermi militari fu composta, il capitano americano, ordinò al plotone di fucilarli tutti. I feriti furono finiti con un colpo di grazia alla testa. Nello stesso giorno un altro gruppo di 37 italiani prigionieri fu sterminato dal sergente Horace West, che invece aveva ricevuto l´ordine di scortarli nelle retrovie per farli interrogare. I pochi soldati italiani che riuscirono miracolosamente a salvarsi dai plotoni di esecuzione americani subirono un isolamento sconcertante per tutto il dopoguerra. L´aviere Giuseppe Giannolo, siciliano di Palermo, catturato il 14 luglio venne affidato al sergente West e fu testimone del massacro dei compagni, ferito ad un braccio, finì disteso sotto i corpi delle altre vittime, fingendosi morto. Soltanto dopo due ore provò a rialzarsi e subito fu raggiunto, da lontano, da un ulteriore colpo di arma da fuoco che lo ferì di striscio alla testa. Costretto di nuovo a terra, dopo un´altra mezz´ora riuscì ad allontanarsi dalla scena della strage. Vagando alla ricerca di aiuto e ferito al braccio e alla testa, Giannola s´imbatté finalmente in un militare statunitense che esibiva la fascia della Croce Rossa sul braccio, ricevute le prime cure, gli fu fatto capire che di lì a breve sarebbe passata un´ambulanza per portarlo in ospedale, così rimase seduto ad aspettare. Invece dopo un po´, sopraggiunse una jeep, da cui discese un soldato armato, così Giannolo subì la terza fucilazione della giornata, questa volta un colpo sparato a distanza ravvicinata nel collo. Nonostante tutto riuscì a sopravvivere, fu trovato e raccolto da un´ambulanza americana e salvato dai medici militari. Per il Regio esercito Giannolo risultò disperso e addirittura sospettato di diserzione. Rientrato dalla prigionia denunciò l´accaduto, ma nessuno gli ha mai voluto credere o forse nessuno sapeva che farsene della sua verità. Nel 2004 la procura militare di Palermo finalmente si è occupato del caso.
POCO ONORE PER I CADUTI ITALIANI A GELA
L´Italia non fu generosa di riconoscimenti per i suoi figli in divisa caduti a Gela. Il Capo di Gabinetto del ministro della difesa inviò nel 1945 alla Commissione preposta alla concessione delle ricompense al valor militare una nota molto stringata e inequivocabile a margine delle 114 posizioni da esaminare, relative agli atti di eroismo dei nostri soldati in Sicilia: "Nei riguardi di dette proposte il Sig. Ministro, per ovvie considerazioni, richiama l´attenzione perché voglia esaminarle con criteri di giusta severità, intesi a premiare essenzialmente coloro che, col sacrificio della vita, hanno effettivamente compiuto indiscutibili, accertati ed esemplari atti di valore". Le "ovvie considerazioni" determinarono ingiustizie paradossali, negando sacrosante medaglie d´oro a soldati che le avevano meritate e ai quali non fu perdonato di essere morti in una battaglia che la nuova situazione politica rendeva imbarazzante. A nulla valsero nel dopoguerra, le proteste del generale Guzzoni e le richieste di riesame delle ricompense avanzate da più parti, fino ancora agli anni sessanta, né al maggiore Artigiani, né al tenente Angelo Navari fu riconosciuta la massima onorificenza, ma solo la medaglia d´argento. Al caporalmaggiore Cesare Pellegrino addirittura solo la medaglia di bronzo.
Suscita ancora commozione il racconto del viaggio su un biroccio, trainato da un cavallo, da Cerveteri a Gela, a cui si sottopose il padre del carrista Antonio Ricci per riportare i resti del figlio nel paese natale. È un´immagine dolente, quasi oleografica, questo ritorno del figlio alla casa paterna, dentro una cassa avvolta nella bandiera, su un misero carro di contadini che avanza lento, al passo di un cavallo stanco, con il padre seduto a cassetta, per oltre mille, infiniti chilometri.
Fonte: Andrea Augello, Uccidi gli italiani, ed. Mursia
Antonio Paludi
LA RIPRESA DELLA VITA CIVILE A VITTORIA " di Francesco Ereddia
1) - POZZALLO 10 luglio 1943 - ore 9:30
Telegramma a:
Carabinieri Gruppo Ragusa
Stazione Carabinieri Comiso
Compagnia Carabinieri Modica
LARGO COSTA POZZALLO SOSTA CONVOGLIO NAVALE NEMICO CON MEZZI SBARCO PUNTO
Maresciallo Passarello
2) - RAGUSA 10 luglio 1943 - Telegramma per Ministero Interni /Gabinetto - Roma - Precedenza assoluta su tutte le precedenze
n° 2425 - Gab/ Stanotte numerosi paracadutisti stati lanciati territorio Acate Vittoria et altipiano Ragusa fra Genisi et Comiso alt Stamane preceduto bombardamento navale nemico effettuato sbarco levante Pozzallo et Punta Braccetto comune Vittoria alt Popolazione calmissima
Prefetto Moroni
***
Alle ore 3:45 del 10 luglio avvenne lo sbarco a Scoglitti. Veniva sbarcata la 45° Divisione di
Fanteria, comandata dal maggior generale Troy Middleton; comandante dell´artiglieria era il generale di brigata Raymond S. McLain; comandante delle forze navali il contrammiraglio John L. Hall; comandante del corpo d´armata il tenente generale Omar Bradley.
L´attacco durò quasi un´ora: gli americani catturarono con facilità la batteria di cannoni di Capo Camarina, mentre le ruspe andavano su e giù lungo la spiaggia a scavare fosse e ripari. Il generale Bradley pose il suo comando nella caserma dei carabinieri di Scoglitti: nella piazza del paese vennero radunati i soldati italiani fatti prigionieri.
Alle 14 circa le prime due camionette americane entrarono a Vittoria dalla via Milano, scortate lungo tutta la strada da un vigile urbano. Quando i militari americani giunsero all´altezza della scuola elementare, che da parecchi mesi era stata trasformata in alloggiamento tedesco, dall´edificio cominciarono a sparare. Gli americani si appostarono dentro il fondaco che si trovava nell´attuale Piazza Italia (ad angolo con l´odierna Via Dell´Acate) e da lì presero a rispondere al fuoco. Dopo un po´ l´ultima debole resistenza tedesca venne eliminata.
Possiamo immaginare la confusione e lo smarrimento che regnarono a Vittoria, come nelle altre città piccole, medie e grandi della Sicilia, nelle ore immediatamente successive allo sbarco alleato. Smarrimento e confusione (oltre che tra i soldati italiani messi a difesa della linea costiera anche e soprattutto tra la popolazione civile) che si traducevano in angoscia per chi ricopriva cariche istituzionali o si era compromesso con il regime fascista. Era un´intera comunità, quella vittoriese, che si ritrovava improvvisamente in prima linea e si confrontava con la violenza della guerra totale.
In quella situazione caotica, nella latitanza delle istituzioni, il compito di stabilire un ponte tra la popolazione e gli occupanti fu assunto immediatamente a Vittoria da un esponente del clero.
« Eccellenza Rev/ma, i paracadutisti insieme a forze sbarcate sono entrate trionfalmente a Vittoria il giorno 10 luglio. Nel dopo pranzo vi fu una certa sparatoria di prevenzione e di parata. In Piazza Vittorio Emanuele [l´attuale Piazza del Popolo] si svolsero episodi di fraternità espansiva e dimostrativa. Tutto il nostro clero secolare e regolare diede prova di coraggio e di costanza; solo i Padri Cappuccini si erano squagliati pochi giorni prima non potendo soffrire le frequenti incursioni [aeree] delle due settimane precedenti ... I Vicari cooperatori della Matrice si sono trovati più pronti dei Cappellani militari nel cercare colle forze armate e tumulare i cadaveri di soldati italiani abbandonati sui campi ... Subito l´indomani dell´invasione le autorità americane mi mandarono a chiamare, desiderando vedermi: sono andato insieme al commissario di P.S. Il Colonnello Story mi riceveva con le seguenti parole: ´Sono contento di fare la vostra conoscenza e di mettermi in relazione con la autorità religiosa di questa città. Abbiamo avuto istruzioni dal Governo Americano di seguire le direttive del Papa e non vogliamo fare sbagli; perciò siamo contenti di fare la vostra conoscenza e collaborare insieme. Voi e tutto il Clero godete di già [del]la più ampia libertà, non porterete alcun segno o distintivo, basta il vostro abito. Le chiese saranno rispettate e aiutate, e se per caso succederà qualche danno contro il nostro volere, siamo pronti a ripararlo. Dite alle suore dei diversi conventi che stiano tranquille e contente, che noi le difendiamo e faremo tutto per loro´. Alle parole sono seguiti i fatti, e noi si gode piena libertà. Non si è avuta nessuna molestia e nessun minimo disturbo nelle chiese, anzi si è ripristinato il suono delle campane come nell´anteguerra. I soldati cattolici vengono ad ascoltare la messa e a comunicarsi dopo essersi confessati da me ».
Questa relazione inviava all´indomani dello sbarco al vescovo di Siracusa don Raffaele Cassibba, arciprete della Chiesa Madre di S. Giovanni Battista.
Nato a Vittoria nel 1876, era emigrato ancora ragazzo negli Stati Uniti perché rimasto orfano di entrambi i genitori. Lì assunse l´abito talare e fece costruire una chiesa con annessa casa canonica ad Hazleton, presso Boston. Rientrato in Italia, nel 1933 era stato nominato dal vescovo di Siracusa vicario foraneo e parroco della Chiesa Madre di Vittoria, dove esercitò le sue funzioni fino al 1953. Infaticabile restauratore delle chiese di San Francesco di Paola, di San Paolo, di San Biagio e di Santa Maria delle Grazie, molto vicino ai problemi di tutta la comunità vittoriese, anche e soprattutto dopo lo sbarco alleato diede ulteriore prova del suo carattere fattivo e intraprendente.
C´è, all´inizio della relazione, una nota polemica nei confronti dei Cappuccini, il cui convento era in Piazza Calvario, da dove per mesi i frati avevano visto transitare sulle loro teste i caccia e i bombardieri anglo-americani che, partendo dalle basi africane, andavano a colpire anche in territorio ibleo i più importanti obiettivi militari italo-tedeschi (come, ad es., la guarnigione di Pozzallo e la base di Comiso). Quelle incursioni avevano fatto vittime anche fra i civili: in una nota della prefettura di Ragusa al Ministero dell´Interno, ad esempio, datata 23 giugno 1943 (cioè due settimane prima dello sbarco), il prefetto Moroni aveva compilato un quadro riassuntivo dei danni provocati alle persone da una delle tante azioni aeree alleate. Nella nota, avente per oggetto "Donne e bambini uccisi o feriti da mitragliamenti effettuati da aerei nemici e da ordigni esplosivi lanciati dagli stessi aerei", Moroni informava il suo Ministero che erano stati uccisi cinque bambini, tre a Chiaramonte e due a Pozzallo, e due erano rimasti feriti gravemente, uno a Pozzallo e uno a Santa Croce Camerina. A queste vittime di quell´ennesima incursione bisognava aggiungere una donna uccisa per mitragliamento a Ispica.
L´apertura cordiale e l´assoluta disponibilità, poi, manifestate a don Raffaele Cassibba dal colonnello Story, e da quello dettagliatamente illustrate nella sua relazione al vescovo, rientravano in effetti in quella che fu detta la "posizione speciale del Vaticano", cioè il grosso spazio assegnato dagli Stati Uniti agli interessi del Vaticano in Italia. Il Vaticano era l´unica forza politica che Roosevelt – nei mesi precedenti lo sbarco – era disposto a riconoscere in Italia. E non c´è dubbio che in questa direzione i rappresentanti del clero americano avevano esercitato una certa influenza sui piani politici del presidente.
Del resto, l´arciprete Cassibba era vissuto tanti anni in America a stretto contatto umano e pastorale con le comunità italo-americane, così che la sua figura sembrava incarnare in modo straordinario quelle "tradizioni di amicizia tra Stati Uniti e Italia" su cui insisteva fin dalla metà del 1942 nelle sue trasmissioni radiofoniche settimanali (la rubrica si chiamava La voce dell´America) un siculo-americano di prestigio quale Fiorello La Guardia. Quest´ultimo, assieme ad un antifascista di primissimo piano, Gaetano Salvemini, rifugiatosi in America come perseguitato politico, premeva perché non fosse imposta una pace punitiva all´Italia, come invece volevano gli inglesi, e vi si assicurasse uno stabile assetto postbellico.
A questo prodigarsi di don Cassibba per la popolazione vittoriese faceva eco il vescovo di Siracusa in una lettera pastorale del 22 luglio 1943, pochi giorni cioè dopo lo sbarco:
« Come posso soffermarmi in argomenti di letizia, quando il turbine della guerra ormai ci avvolge nelle sue spire e gli animi hanno estremo bisogno di essere fortificati, incoraggiati, sorretti a speranza di giorni migliori? Nel dolore più che nella gioia sento di dovere essere vicinissimo a tutto il mio clero, a tutto il mio popolo, e comprendendone le sofferenze, le trepidazioni, vorrei potere essere il pio samaritano che si piega a versare balsamo, a portare aiuto ».
Certo, l´impegno del nostro arciprete non poteva permettersi simili slanci evangelici e poetici, se non altro perché troppo pervaso di prosaica quotidianità. Come, ad esempio, quello profuso da lui – alla testa dei vicari della sua chiesa – per seppellire, a poche ore dallo sbarco, i cadaveri dei soldati italiani deceduti negli scontri armati, come l´arciprete riferisce nella sua relazione al vescovo.
Già a due settimane dallo sbarco fu organizzata compiutamente un´amministrazione militare alleata nelle province di Siracusa e di Ragusa. Qui, infatti, si insediò subito un nucleo dell´AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory, "Governo Militare alleato del Territorio Occupato"), che era diviso in sei sezioni (legale, finanziaria, annonaria, sanitaria, di pubblica sicurezza, delle proprietà del nemico). Gli ufficiali inglesi ed americani,incaricati di occuparsi degli affari civili (la loro sigla era CAO, Civil Affairs Officers), assunsero le funzioni di riorganizzatori e controllori delle amministrazioni locali subito dopo l´entrata delle truppe combattenti nei paesi loro assegnati e procedettero alla nomina di amministratori provinciali e comunali.
E proprio a uno di questi ufficiali di stanza a Vittoria, il capitano Harris, don Raffaele Cassibba inviava subito la prima di tante richieste scritte, forte oltretutto della sua conoscenza dell´inglese acquisita negli anni della permanenza in America. "Sir, the Sacred Heart Church suffered some damage through the shooting by the American soldiers, when they came in the town. They believed that some Germans were hidden in the Church" ("Signore, la chiesa del Sacro Cuore ha subito alcuni danni in conseguenza dei mitragliamenti effettuati dai soldati americani, quando sono entrati in città. Ritenevano che nella chiesa si fossero nascosti dei tedeschi").
Ma non soltanto dei danni materiali si preoccupava il nostro arciprete: erano i guasti morali, le sofferenze degli uomini che gli stavano più a cuore. C´erano a Vittoria, come in altre città e paesi della Sicilia, tanti soldati italiani, lontani dalle loro famiglie, che non avevano più notizie di loro. Erano formalmente prigionieri delle truppe di occupazione, ma per don Raffaele erano semplicemente poveri esseri umani travolti dalla bufera della guerra e dell´invasione, uomini che adesso desideravano soltanto fare rientro nelle loro case e dimenticare gli orrori della guerra. Così l´infaticabile parroco prendeva carta e penna e faceva le sue richieste. "Capt. Chart, I write to You again for a case of charity ("Capitano Chart, Le scrivo di nuovo per una questione di carità"). Era così che cominciavano tutte le sue lettere. Ci sono a Vittoria - questo scriveva al cap. Chart don Raffaele - due soldati siciliani , il sottotenente Giorgio Di Gregorio e il maresciallo Pietro Aiello, nativi di Corleone, che non prendono ormai da tempo la paga e non hanno niente da mangiare (now they have no pay not anything to eat). ["Lei pensa che potrebbe essere una cosa di buon cuore ("Do You think that would be a kind thing) mandarli a casa , dove essi potranno lavorare e guadagnarsi da vivere (where they can work and earn their living)?". E il capitano Chart gli risponde a stretto giro di posta. "Where is Corleone?", chiede anzitutto il capitano; e poi gli assicura che darà a ognuno un lasciapassare (I will give a pass to anyone) perché facciano ritorno alle loro case (to return to their homes). ]
A don Cassibba, com´è comprensibile, facevano capo tutti coloro – ed erano tanti in quei drammatici momenti – che avevano bisogno di aiuto. La madre superiora dell´Orfanotrofio della Divina Provvidenza (che si trovava dove attualmente c´è l´Istituto del Sacro Cuore, in via Castelfidardo), in una lettera del 10 settembre – erano passati due mesi esatti dallo sbarco - gli illustrava la difficile situazione economica in cui versavano. "Durante l´estate le ragazze [le orfanelle ospiti dell´istituto] sono state senza calze perché, avendone un solo paio, lo risparmiano per uscire e per andare in chiesa. Ma nell´inverno si potrà resistere a vederle tremar di freddo, sprovviste ancor di maglie e di vesti pesanti?". Finiti in quei tre anni di guerra – scriveva suor Maria Serafica Raniolo – i risparmi di cui la comunità disponeva, non c´era alcun modo adesso di provvedere alla biancheria e agli indumenti per le orfanelle. "Con piena fiducia di essere compatita e soccorsa – concludeva la sua richiesta d´aiuto suor Maria Serafica - porgo le più vive scuse per aver inoltrato la presente domanda, e ringrazio e ossequio religiosamente".
D´altra parte, il nostro arciprete già da prima dello sbarco era il responsabile del Comitato vittoriese per l´alimentazione, che faceva capo alla Sezione provinciale di Ragusa, e nelle settimane successive all´invasione alleata si mosse, di concerto con la Croce Rossa Americana e con il Commissario Prefettizio del comune di Vittoria, per creare un Comitato per l´Assistenza Sociale. Le maggiori attenzioni erano riservate all´infanzia: si cominciarono così a distribuire cibo e indumenti ai bambini. Del Comitato facevano parte, oltre all´arciprete Cassibba, il presidente della Società Operaia di Mutuo Soccorso "Rosario Cancellieri" e una maestra, Lucia Segreto.
E in riferimento all´infanzia, così profondamente traumatizzata dai terribili eventi bellici, c´è da dire che don Raffaele, in questo sostenuto dal capitano Chart dei civile officers, non potendo far riaprire le scuole perché ci si trovava in piena estate, già ai primi d´agosto del ´43 istituì quelle che americani e inglesi chiamavano Sunday Schools, una sorta di catechismo domenicale che aveva però lo scopo di riunire i bambini e dar loro un importantissimo sostegno psicologico in quei drammatici frangenti.
FRANCESCO EREDDIA
" LA BATTAGLIA DIMENTICATA, ONORIAMO GLI ITALIANI CADUTI NELLA BATTAGLIA DI GELA: ORE 2,45 DEL 10 LUGLIO 1943." di Antonio Paludi.
GLI ANTEFATTI DELL´OPERAZIONE "HUSKY"
Il 13 maggio 1943, le ultime truppe italo – tedesche in armi della Tunisia si erano arrese agli anglo – americani. Quando ancora in Tunisia si combatteva, tra il 14 e il 24 gennaio 1943 si svolgeva a Casablanca, in Marocco, una conferenza interalleata, dove i capi politici e militari britannici e americani, guidati da Churchill a da Roosevelt, concordarono il piano delle future operazioni. Lo Stato Maggiore americano protendeva per uno sbarco in Francia, per sferrare un attacco diretto alla Germania. Lo Stato Maggiore britannico, invece, riteneva troppo forte la presenza di truppe germaniche sul territorio francese e temeva una disfatta. Quindi spinse per un attacco contro l´Italia, il "ventre molle" d´Europa. Gli obiettivi strategici erano il dominio completo nel Mediterraneo, l´uscita dalla guerra dell´Italia e l´immobilizzo di notevole aliquote di forze tedesche nel territorio italiano, alcune delle quali sarebbero dovuto venire proprio dalla Francia. Alla fine della discussione fu stabilito quale sarebbe stato il primo lembo d´Europa da liberare; la Sicilia.
Terminata vittoriosamente la campagna di Tunisia, i capi Alleati si riunirono nuovamente a Washington, dal 12 al 25 maggio, per mettere in pratica ciò che era stato deciso a Casablanca. All´operazione di sbarco in Sicilia fu attribuito il nome di "Husky", come il cane da slitta siberiano. La direzione delle operazioni fu assunta dal generale americano Eisenhower. Il generale inglese Alexander ebbe il comando delle forze terrestri. Dopo aver occupato, senza grande fatica, le isole di Pantelleria, Lampedusa, Lampione e Linosa, gli anglo - americani partirono verso le spiagge della Sicilia Sud orientale.
I FATTI
Soldati, sottufficiali e ufficiali italiani fatti prigionieri dagli americani a Gela, nei giorni successivi al 10 luglio del 1943, furono internati a migliaia nei campi di prigionia del Nord Africa, a centinaia di chilometri dal proprio Paese, lontani dai propri genitori i quali, a fronte della battaglia combattuta così duramente, erano inconsapevoli se i propri cari fossero, incolumi o feriti, sopravvissuti o morti o dispersi. Immaginiamo lo stato d´animo sofferente di questi giovani combattenti che si erano battuti con valore e coraggio, lasciando sul terreno migliaia di compagni morti, altri feriti non solo nel fisico, costretti, come raccontano i superstiti, a subire, dagli altri prigionieri dell´ormai ex regio esercito, l´umiliazione di essere additati come traditori, vigliacchi, codardi, fuggiti senza aver combattuto davanti al nemico che calpestava il sacro suolo della patria. Invece non era così, perché se tradimenti ci furono, certo non furono perpetrati dai soldati schierati a Gela, a Butera, a Scoglitti, a Caltagirone, a Niscemi, a Licata a Santo Pietro, a Comiso, né tantomeno dagli ufficiali e sottufficiali che li comandavano. Tutti anzi si batterono senza risparmio d´energia, con coraggio e valore contro forze sovrastanti, più modernamente equipaggiate e appoggiate da una forza aerea che contava migliaia di veicoli e da una flotta così potente e numerosa che avrebbe tolto il respiro solo a guardarla, lì nel golfo di Gela.
La Sicilia fu aggradita, da Inglesi e Americani, con due forze navali d´invasione: la East Task Force, composta da 818 navi inglesi, al comando dell´ammiraglio Ramsay, doveva condurre l´armata del generale Montgomery su cinque spiagge della costa sud-orientale, comprese tra capo Ognina e punta Castelluzzo, e la West Task Force, al comando dell´ammiraglio Hevitt, forte di 580 navi e 1120 mezzi da sbarco, doveva favorire lo sbarco della 7a Armata americana del generale Patton sul litorale occidentale, tra Torre Braccetto e Torre di Gaffe, quindi Gela e Licata, in questo ristretto scacchiere della Sicilia sud orientale gli anglo - americani avevano concentrato 280 navi da guerra, ognuna armata con otto cannoni da 127 mm e quindici da 152 mm, sistemati su tre torri trinate a prua e due a poppa. Ogni cannone poteva sparare un proiettile di 50 Kg, fino a 25 Km di distanza, alla velocità di 925 metri al secondo. Inoltre gli anglo – americani mettevano in campo 181.000 uomini, 600 carri armati, 14.000 veicoli, 1800 cannoni. Una forza poderosa contro cui gli italiani potevano opporre, sul fronte marino, una flotta di tutto rispetto, a Taranto erano dislocate due corazzate, la Duilio e la Doria, un incrociatore e due cacciatorpediniere. A La Spezia e a Genova erano a disposizione altre tre corazzate, l´Italia, la Roma e la Vittorio Veneto, tre incrociatori, otto cacciatorpediniere e altre piccole unità.
Sul fronte terrestre erano a disposizione 180.000 uomini italiani, da oriente ad occidente della Sicilia: la "Napoli", la "Livorno", "l´Asietta" e "l´Aosta", supportate dai carri del 131° Reggimento, I FIAT 3000 e i Renault 35, divisi in compagnie mobili e 28.000 tedeschi, dotati di forze corazzate che disponevano del tecnologico carro "Tigre", l´unico capace di competere con gli Sherman americani. Le Forze Armate in Sicilia erano comandate dal generale Alfredo Guzzoni, avvicendato al generale modenese Mario Roatta nel mese di maggio del 1943. Guzzoni era un ufficiale intellettualmente onesto e professionalmente capace, intorno al comandante in capo agiva una rete di ufficiali del Regio Esercito che faranno del loro meglio per difendere l´isola, alcuni di grande valore e strategicamente preparati.
A Gela Guzzoni aveva schierato il 429° Battaglione costiero, comandato dal maggiore Arnaldo Rabellino, l´unità era disposta principalmente lungo le linee di fortini costruiti in prossimità delle spiagge, collocata anche al di fuori dell´abitato, verso la diga e oltre, fino ad una seconda linea di bunker che sovrastava Gela e giungeva alle alture del Castelluccio. A loro toccò in sorte di essere i primi a dover affrontare la più imponente invasione del vecchio continente mai tentata fino a quel momento.
ARRIVANO
Il movimento della flotta anglo - americana fu segnalato dai ricognitori italiani alle ore 16,30 del 9 luglio e confermato al Comando italiano dell´isola da quello tedesco alle 19.00. Alle 22,00 il Comando italiano della Sicilia comunicò a tutte le postazioni militari l´allarme generale. A Gela furono evacuate le abitazioni più a ridosso della spiaggia e richiamati tutti i soldati al loro posto. La notte del 9 luglio la forza d´invasione puntò verso i suoi obiettivi, definendo così il tratto di costa che divenne il campo della battaglia di Gela. La 7 a Armata USA, puntava a sbarcare quasi 70.000 uomini appoggiati da 250 mezzi corazzati tra Punta Braccetto e Punta Due Rocche, lungo un fronte di 58 Km, gettando nella mischia la 45a Divisione e il "Grande Uno Rosso". Il piano prevedeva il lancio nelle immediate retrovie della linea di sbarco di unità di paracadutisti, incaricati di conquistare le postazioni e gli snodi stradali strategici per impedire un´eventuale controffensiva e seminare il panico, sconvolgendo i collegamenti nemici. Alle due del mattino sarebbe iniziato lo sbarco vero e proprio. Nello stesso quadrante Alfredo Guzzoni poteva opporre, tra Scoglitti e Gela, i quattro Battaglioni dei Reggimenti costieri 178° e 134° schierati sulle Spiagge, con in tutto dieci batterie, di cui solo nove efficienti: sei batterie con cannoni da 75 del 1906, tre erano da 100, più moderni. Dietro questa sottile linea c´era il Gruppo mobile E, di stanza a Niscemi, forte di una dozzina di carri Renault 35, appoggiati da semoventi 47/32 e da altri carri leggeri, una compagnia di bersaglieri e una autotrasportata. La Divisione Livorno e la Divisione Hermann Göring erano, infine, le due unità schierate sul terreno in modo ideale per tentare un contrattacco, partendo rispettivamente da San Cataldo / Mazzarino e Caltagirone. Altri due battaglioni costieri presidiavano il territorio di Licata.
LA BATTAGLIA DI GELA
A Gela sono le 2,00 del mattino, nelle campagne si sente sparare da molte ore e nel cielo vanno e vengono numerosi gli aerei. Gli americani sono da qualche ora sul territorio siciliano perché Patton ha ordinato un lancio di paracadutisti, i quali vuoi per la contraerea italiana fortissima, vuoi per le avverse condizioni del tempo, soffia un vento (la mitica Provenza) a 50 Km orari, gli aerei, per queste ragioni, sbagliano punto di lancio e le malcapitate unità si disperdono su un´area di 120 km quadrati, diventando facile preda dei carabinieri italiani, che partono subito alla loro ricerca. I cittadini di Gela quella notte, nonostante in vigore una specie di coprifuoco, vanno a letto molto tardi, convinti che quella notte non sarebbe accaduto niente. I soldati sono tutti al loro posto, fumano, chiacchierano e guardano il mare nero dal fortino di Porta Marina, da quelli ubicati nel giardino della villa comunale, dai bunker di Capo Soprano e da quelli che sovrastano la diga, la tensione si tocca con le mani perché sanno che sta per accadere l´irreparabile e, forse, per molti di loro quella sarà l´ultima. Una pattuglia di Finanzieri viene inviata, dal loro comandante, a dare un´occhiata più da vicino alla spiaggia. La comanda l´appuntato Mario Vitale che decide d´ispezionare il tratto cha va dal vecchio pontile al caricatore. Ad un certo punto i componenti la pattuglia sentono qualcosa strano, un rumore subito interpretato che proviene dal mare, mandano immediatamente indietro la guardia semplice a dare l´allarme al Comando. Rimasti sul posto l´appuntato Vitale e il brigadiere Arena prendono accordi per trovare la conferma della loro intuizione, del loro sospetto. Con calma, come se proseguissero il pattugliamento, i due militari raggiungono un canneto, allontanandosi così dalla spiaggia. Da questa nuova posizione impugnano il loro fucile ´91, aprono il fuoco in direzione del misterioso rumore. Due colpi secchi nella notte. Seguono due secondi di silenzio, poi dal mare sale uno spaventoso boato, seguito da un uragano di fuoco, luci, razzi. Enormi vampe infuocate scatenate nel cielo di Gela, mentre decine e decine di mezzi da sbarco sparano in direzione di quel canneto simultaneamente. Il brigadiere Arena rimane gravemente ferito e morirà dopo qualche ora, mentre l´appuntato Vitale è colpito di striscio, ma riesce a mettersi in salvo sgusciando tra le canne.
Sono 2.45 i mezzi da sbarco americani si presentano davanti al pontile di Gela, scendono armati fino ai denti. I ranger del tenente colonnello William Orlando Darby, il I e il IV Battaglione, corrono sulla sabbia verso l´abitato. Li prende d´infilata il fuoco di due mitragliatrici, la prima spara dalla villa comunale e la seconda dal bunker di Porta Marina. Nel fortino c´è il caporalmaggiore Cesare Pellegrino, che si trovava lì per ragioni connesse al suo ruolo, è un portaordini, non ci pensa due volte s´infila nel bunker e apre il fuoco sugli invasori, facendo una vera e propria strage di nemici, fino a quando non verrà neutralizzato da un graduato di colore americano che ha aggirati la postazione. Quella notte fra gli italiani non ci sono solo eroi, qualcuno perde la testa e se la dà a gambe. Qualche postazione viene mollata senza ulteriore resistenza, ma nell´abitato si combatte ancora e si muore per la patria, spesso ingrata per questa gente. I Carabinieri prendono posizione nell´ex hotel Trinacria e aprono il fuoco sugli americani fino a quando non resteranno senza munizioni. Si muore davanti al Duomo, dove alcuni soldati italiani sono agonizzanti, lo scontro divampa anche vicino alla diga, presso contrada Grotticelli, tra il fiume Gela e il Dirillo. Vinta la resistenza dei Carabinieri che dopo aver perso un milite e finite le munizioni sono costretti alla resa. L´ultima resistenza è probabilmente quella del giovane tenente catanese Filippo Lembo, che con pochi uomini tenta di fermare il nemico nella centrale via Giacomo Navarra Bresmes. Ben presto i suoi soldati vengono colpiti, rimasto solo, continua a far fuoco con la pistola, fino a terminare i colpi. A questo punto cerca rifugio in un magazzino, dove viene raggiunto dai soldati americani e finito a colpi di pugnale, il suo corpo verrà sfregiato e mutilato. Alle prime luci del giorno capitola il bunker antistante il cimitero, difeso con ostinazione per tutta la notte dal tenente Giuseppe Gentile e dai suoi ragazzi con due mitragliatrici Breda, che tacciono solo quando l´ufficiale viene ferito a morte. Alle 6,00 del mattino il tenente colonnello Darby ha già comunicato a Patton di aver preso il controllo di Gela. In realtà non è vero, non ci riuscirà prima delle 9,20, quando l´ultima posizione italiana, quella di Capo Soprano, dovrà arrendersi di fronte agli americani che avanzano facendosi scudo con alcune decine di prigionieri italiani. Per scoprire, subito dopo, che la battaglia di Gela è appena cominciata.
SI COMBATTE CON EROISMO A SCOGLITTI
Intorno a Gela i Battaglioni costieri fanno molto di più del loro dovere: il 429° e il 134° del Reggimento costiero, comandati dal maggiore Arnaldo Rabellino, lasciano sul campo ben 17 ufficiali e 180 soldati, pari a poco meno del cinquanta per cento degli effettivi disponibili. A Scoglitti fanno del loro meglio anche il 178° e il 123° Reggimento costiero. La prima ondata americana investe il canale Mangiauomini alle 4,00 del mattina, accolti a cannonate dalle batterie costiere, anche qui, come in altri posti, il fuoco della flotta ha ben presto ragione dell´artiglieri dei difensori, che viene messa a tacere, anche perché ha una minore gittata rispetto a quelli delle navi americane. La resistenza italiana è ostinata, ma priva di adeguata copertura di artiglieria. Alle foce del Dirillo cadono con le armi in pugno tutti gli uomini del sottotenente Ciraulo, che rifiuta la resa. Poco dopo tocca il medesimo destino al tenente Bovio e al suo plotone, massacrati dai carri. Partecipano ai combattimenti anche i Carabinieri di Biscari e i militi della Guardia di Finanza, che lasciano sul terreno due caduti. Alle 14,00 del 10 luglio Scoglitti cade nelle mani americane. E´ morto combattendo il capitano Serra a Villa Comitini, con buana parte dei suoi uomini, stessa sorte per il tenente Sella e tutti i suoi quindici soldati, che difendevano il bunker di Case Cameni. L´ultima resistenza viene organizzata sulla strada che collega Santa Croce a Scoglitti. Qui il colonnello Primaverile resiste all´attacco dei paracadutisti che provengono dall´entroterra e alle avanguardie della 45a Divisione appena sbarcata. Il posto di blocco si dimostra un osso duro e resiste fino a quando non si esauriscono le munizioni. Gli assalti alle postazioni italiane costano agli americani una trentina di caduti, mentre i difensori lasciano sul campo tredici uomini tra morti e feriti, prima di capitolare alle 13.00.
LE MOSSE DI GUZZONI
Mentre i primi mezzi da sbarco giungono sulle spiagge siciliane, il generale Alfredo Guzzoni dirama gli ordini per un´immediata controffensiva. Le zone di sbarco americane sembrano subito le più aggredibili, considerate la dislocazione delle forze italo – tedesche. I tedeschi della Hermann Göring dovrebbero partire da Caltagirone alla volta di Gela, coadiuvati dalla Divisione Livorno e dal Gruppo mobile E di stanza a Niscemi. I primi a muoversi sono questi ultimi, agli ordini del capitano del 131° carristi Giuseppe Granieri che alle 3,00 del mattino riceve dal suo comandante, il generale Rossi, l´ordine di raggiugere Gela e di mettersi a disposizione del generale Mariscalco che comanda la XVIII Brigata costiera. Purtroppo Granieri non ha altre consegne: immagina di veder convergere su Gela altre unità, ma non ha indicazioni di alcun genere che possano consentirgli di coordinarsi con la Göring o la Livorno. Guzzoni, infatti, suppone che le unità giungeranno a Gela mentre la Brigata costiera sta ancora combattendo e che sarà il generale Mariscalco a coordinare un adeguato dispiegamento tattico del contrattacco. Sa di correre il rischio che i rinforzi arrivino tardi, con le difese costiere già travolte dagli americani. Tuttavia l´importante è impegnare subito lo scontro con l´avversario, non farlo ragionare, tenere sotto pressione la testa di sbarco, riprendere il controllo della piana di Gela e ributtare a mare gli Americani. Le truppe italiane divise in due tronconi avanzano, il primo con l´obiettivo di assalire Gela da nord est, discendendo da Niscemi e dall´aeroporto di Ponte Olivo, e percorrendo la statale 117, i reparti che vi partecipano sono: i Gruppi mobili E e H, il primo composto da 12 carri Renault 35, una compagnia cannoni con otto pezzi da 75/18 trainati da autoveicoli, una compagnia di fanteria costiera autotrasportata e una compagnia di bersaglieri motociclisti, comandato dal capitano Granieri, assistito dal tenente Navari. Il secondo, d´identica consistenza, forte di nove carri FIAT 3000, al comando del tenente colonnello Cixi, marcia da Caltagirone verso l´aeroporto di Santo Pietro, erroneamente chiamato dagli Americani di Biscari.
Dall´alto di Niscemi, base di partenza del Gruppo mobile E, si ha una bella vista sulla piana di Gela fino al mare. Mentre mettono in moto i motori dei piccoli Renault 35, i nostri carristi vedono bene l´inferno di fuoco che si scatena sulle spiagge, scorgono le sagome dell´immensa flotta che rovescia razzi e cannonate sui difensori: nonostante ciò ingranano la marcia, di tornante in tornante, scendono nella notte verso quel fuoco ardente, non immaginiamo con quale stato d´animo. Alle 6,00 del mattino Granieri e Navari sono quasi a Ponte Olivo, mentre il tenente colonnello Cixi e il Gruppo mobile H sono in vista di Santo Pietro.
Mentre intorno a Santo Pietro il Gruppo mobile H si scontra con i paracadutisti, la colonna di carri del Gruppo mobile E, guidata dal capitano Granieri e dal tenente Angelo Navari, è in vista dell´abitato di Gela e inizia l´attacco al perimetro difensivo americano. Gli avamposti americani scambiano quella nostra compagnia di carri leggeri per la divisione Hermann Göring, creando una comprensibile apprensione nel loro comando.
I CARRISTI DEL TENENTE NAVARI ALL´ASSALTO DI GELA
Nel frattempo i carri del Gruppo mobile E sono giunti in prossimità dell´abitato. Il giovane tenente Angelo Navari non è preoccupato dalla possibile resistenza delle unità americane che difendono il perimetro della testa di sbarco, ma dal tratto di terreno scoperto della piana di Gela che i suoi carri dovranno attraversare per raggiungere le prime case della cittadina, zona ormai inquadrata dai cannoni della flotta, guidati nel tiro da piccoli aerei in volo. Il tenente decide comunque di compiere una puntata in direzione del paese, eseguendo l´ordine ricevuto dal capitano Granieri, che per una provvisoria avaria al suo carro gli ha affidato la testa della colonna. I carri partono all´assalto e travolgono d´impeto i primi avamposti americani, assistiti validamente da una compagnia di bersaglieri. I ranger mollano subito i bassi rilievi che fronteggiano, da un chilometro di distanza, l´altura del Castelluccio, ancora in mano italiana, ma nel frattempo i cannoni del cacciatorpediniere Shubrick inquadra l´area su cui avanzano i bersaglieri e i carristi. Inizia un fuoco d´inferno a cui partecipa anche l´incrociatore Boise. L´effetto del bombardamento è micidiale: tre carri Renault sono danneggiati, un terzo dei bersaglieri viene massacrato, ma i superstiti continuano l´assalto, superando le linee difensive americane e irrompono nell´abitato. La situazione è molto confusa, i bersaglieri si attestano a difesa a ridosso delle prime case di Gela. La 2 a compagnia del Gruppo mobile E prende posizione troppo a ridosso delle linee americane e viene investita dal fuoco dei mortai con effetti micidiali, resta ucciso il sottotenente Ottavio Bazzoli Righini. I carri italiani arrivano sull´obiettivo uno alla volta e quindi incapaci di svolgere un´azione coordinata ed efficace. Lo stesso comandante, il capitano Granieri, dopo essere riuscito ad avviare il carro e a raggiungere il reparto, sotto il fuoco nemico, si rende conto dell´impossibilità di riordinare in modo razionale la sua compagnia. L´ultima linea difensiva americana corre lungo la ferrovia Gela Vittoria: qui i genieri statunitensi hanno approntato una serie di postazioni e di sbarramenti difensivi che i ranger sono costretti ad abbandonare sotto il fuoco italiano. Il primo carro a superare la ferrovia è quello del tenente Navari. Il mezzo improvvisamente si arresta. Il pilota scende e tenta con successo di farlo ripartire utilizzando la manovella esterna, ma non fa in tempo a rientrare, perché viene centrato dal fuoco nemico. Angelo Navari si affaccia dalla torretta e vede il suo pilota esamine. Chiude il portellone e senza esitazione riparte verso il centro di Gela, lungo l´attuale via Generale Cascino, allora via Carrubazza. Poco dopo transita il secondo carro Renault che giunge in vista di Porta Caltagirone, lo pilota il carrista Antonio Ricci, al comando del sergente Cannella. La visibilità, nell´abitato, diventa nulla a causa del fumo causato dagli spari dei cannoncini e dalle mitragliatrici. Per questa ragione i carristi, per ritrovare le coordinate spaziali e rendersi conto di quello che all´esterno sta succedendo, si devono fermare, scendere e poi ripartire. È quello che deve fare il carrista Antonio Ricci, ragazzo di 22 ani di Cerveteri, quando, perduto il contatto visivo con gli altri carri, il sergente Cannella è sotto shock e si rifiuta di scendere. Antonio, che è un giovane coraggioso, lo tranquillizza, poi aperto il portellone, salta fuori. Proprio in quell´attimo una pioggia di granate cade tutto intorno al carro e le schegge raggiungono il giovane carrista uccidendolo. Il sergente riparte rabbiosamente e supera porta Caltagirone, mentre il corpo del povero Ricci rimane adagiato in una cunetta. Imboccata via Giacomo Navarra Bresmes il carro deve arrestarsi sotto un diluvio di fuoco. Costretto alla ritirata, il sergente Cannella ritorna sui suoi passi, raggiunge di nuovo via Generale Cascino, ma all´incrocio tra questa e la circonvallazione per Vittoria, il Renault viene centrato da un colpo di cannone anticarro. Le lamiere rimangono squassate, da quelle ferraglie contorte e fumanti emerge stordito, ma vivo, il sergente Cannella. Barcolla in mezzo alla strada, mentre qualche gelese dalle finestre gli batte le mani e una giovane donna esce di casa soccorrendolo e abbracciandolo. Davanti a questa scena anche i militari americani, che lo hanno colpito, gli stringono la mano, prima di farlo prigioniero.
Intanto il tenente Navari continua, da solo, a seminare strage tra gli americani e sembra inarrestabile. I ranger se lo vedono passare davanti all´ex hotel Trinacria. Quel carro sembra invulnerabile e continua a farsi il vuoto davanti, sparando con la mitragliatrice. Qualcuno imbraccia un bazooka per fermarlo, il primo colpo va a vuoto. Il carro irrompe in piazza Umberto, arriva fin sotto la chiesa ed è ormai a 300 metri dalla spiaggia: ha tagliato a metà la testa da sbarco americana, abbattendo ogni difesa sul suo cammino. Il secondo colpo di bazooka colpisce il cingolo. Secondo testimonianze il Renault non viene colpito, ma si arresta all´improvviso, forse per un´avaria al motore. Il carro è immobile, Angelo Navari apre lentamente la torretta circondato da centinaia di armi americane spianate. L´ufficiale italiano affiora dal carro, si guarda intorno. Ha la pistola in pugno, si dice abbia sparato, altri sostengono che non abbia fatto in tempo. Di sicuro un colpo di fucile lo centra nella fronte.
CONSUNTIVO
Le unità italiane hanno operato da sole l´attacco contro posizioni tenute da forze enormemente superiori, raggiungendo risultati inimmaginabili per Guzzoni. Contro i piccoli carri Renault di Granieri e i modesti FIAT 3000 di Cixi, la flotta americana ha esploso più di 500 colpi in quattro ore, la 7a Armata Usa ha impegnato complessivamente un Reggimento di fanteria a Piano Lupo e due Battaglioni di ranger a Gela, oltre ai paracadutisti di Gorham e un numero imprecisato di mezzi corazzati, subendo costantemente l´iniziativa dei modesti gruppi tattici italiani, equivalenti, insieme, a un Battaglione di fanteria, supportato da soli 21 carri leggeri. Il limite dell´intera azione è stato il mancato coordinamento con le altre unità dell´Asse, che pure, poche ore dopo la ritirata da Piano Lupo e da Gela entreranno in scena, la Divisione Livorno e la Herman Göring.
I CRIMINI DI GUERRA
Ai poveri difensori di Gela toccò in sorte subire terribili quanto gratuiti crimini di guerra. I reparti della 45 a Divisione di fanteria americana, al comando del generale Middleton, erano sbarcati verso le 2,45 del 10 luglio, con l´ordine di occupare e presidiare gli aeroporti di Ponte Olivo, Comiso e Biscari. L´unità fu duramente impegnata nella battaglia di Gela e il 14 luglio raggiunse il perimetro dell´aeroporto di Santo Pietro (noto agli americani come aeroporto di Biscari). La compagnia comandata dal capitano John Compton rimase a lungo inchiodata dalla tenace resistenza opposta dai difensori italo – tedeschi, lasciando sul campo una dozzina di uomini. Alla fine, dopo aver subito un intenso bombardamento di artiglieria, il presidio italiano fu costretto alla resa: 36 soldati italiani, uscirono con le mani in alto dalle loro posizioni. Proprio il capitano Compton, poco dopo, ordinò a un plotone della sua compagnia di prendere in consegna i prigionieri e di allinearli di fronte ad una fitta forra. Quando la fila degli inermi militari fu composta, il capitano americano, ordinò al plotone di fucilarli tutti. I feriti furono finiti con un colpo di grazia alla testa. Nello stesso giorno un altro gruppo di 37 italiani prigionieri fu sterminato dal sergente Horace West, che invece aveva ricevuto l´ordine di scortarli nelle retrovie per farli interrogare. I pochi soldati italiani che riuscirono miracolosamente a salvarsi dai plotoni di esecuzione americani subirono un isolamento sconcertante per tutto il dopoguerra. L´aviere Giuseppe Giannolo, siciliano di Palermo, catturato il 14 luglio venne affidato al sergente West e fu testimone del massacro dei compagni, ferito ad un braccio, finì disteso sotto i corpi delle altre vittime, fingendosi morto. Soltanto dopo due ore provò a rialzarsi e subito fu raggiunto, da lontano, da un ulteriore colpo di arma da fuoco che lo ferì di striscio alla testa. Costretto di nuovo a terra, dopo un´altra mezz´ora riuscì ad allontanarsi dalla scena della strage. Vagando alla ricerca di aiuto e ferito al braccio e alla testa, Giannola s´imbatté finalmente in un militare statunitense che esibiva la fascia della Croce Rossa sul braccio, ricevute le prime cure, gli fu fatto capire che di lì a breve sarebbe passata un´ambulanza per portarlo in ospedale, così rimase seduto ad aspettare. Invece dopo un po´, sopraggiunse una jeep, da cui discese un soldato armato, così Giannolo subì la terza fucilazione della giornata, questa volta un colpo sparato a distanza ravvicinata nel collo. Nonostante tutto riuscì a sopravvivere, fu trovato e raccolto da un´ambulanza americana e salvato dai medici militari. Per il Regio esercito Giannolo risultò disperso e addirittura sospettato di diserzione. Rientrato dalla prigionia denunciò l´accaduto, ma nessuno gli ha mai voluto credere o forse nessuno sapeva che farsene della sua verità. Nel 2004 la procura militare di Palermo finalmente si è occupato del caso.
POCO ONORE PER I CADUTI ITALIANI A GELA
L´Italia non fu generosa di riconoscimenti per i suoi figli in divisa caduti a Gela. Il Capo di Gabinetto del ministro della difesa inviò nel 1945 alla Commissione preposta alla concessione delle ricompense al valor militare una nota molto stringata e inequivocabile a margine delle 114 posizioni da esaminare, relative agli atti di eroismo dei nostri soldati in Sicilia: "Nei riguardi di dette proposte il Sig. Ministro, per ovvie considerazioni, richiama l´attenzione perché voglia esaminarle con criteri di giusta severità, intesi a premiare essenzialmente coloro che, col sacrificio della vita, hanno effettivamente compiuto indiscutibili, accertati ed esemplari atti di valore". Le "ovvie considerazioni" determinarono ingiustizie paradossali, negando sacrosante medaglie d´oro a soldati che le avevano meritate e ai quali non fu perdonato di essere morti in una battaglia che la nuova situazione politica rendeva imbarazzante. A nulla valsero nel dopoguerra, le proteste del generale Guzzoni e le richieste di riesame delle ricompense avanzate da più parti, fino ancora agli anni sessanta, né al maggiore Artigiani, né al tenente Angelo Navari fu riconosciuta la massima onorificenza, ma solo la medaglia d´argento. Al caporalmaggiore Cesare Pellegrino addirittura solo la medaglia di bronzo.
Suscita ancora commozione il racconto del viaggio su un biroccio, trainato da un cavallo, da Cerveteri a Gela, a cui si sottopose il padre del carrista Antonio Ricci per riportare i resti del figlio nel paese natale. È un´immagine dolente, quasi oleografica, questo ritorno del figlio alla casa paterna, dentro una cassa avvolta nella bandiera, su un misero carro di contadini che avanza lento, al passo di un cavallo stanco, con il padre seduto a cassetta, per oltre mille, infiniti chilometri.
Fonte: Andrea Augello, Uccidi gli italiani, ed. Mursia
Antonio Paludi