" UN VICERE´ DI FERRO: MARCANTONIO COLONNA E " LOS RICOS DELINQUENTES " DI FRANCESCO EREDDIA
“Il governo di Sicilia è stato fatale a tutti i suoi Governanti, dall’anno 1490 fino al 1571. Perché, in breve spatio di tempo, si son trovati involti in pericolose difficoltà, et la maggior parte di essi ha lasciata in quel Regno sepolta in modo la reputazione, che ne ancho nelle posterità loro ha potuto risorgere mai più”.
Negli “Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia” il messinese Scipio Di Castro elaborava acute riflessioni sulla storia della Sicilia attraverso l’avvicendarsi dei vari viceré, sulle principali istituzioni dell’isola, sul carattere dei siciliani (considerazioni, queste ultime, rimaste celebri) e sulla questione frumentaria, da cui dipendevano e i successi dei viceré e le condizioni materiali di vita della popolazione.
Destinatario delle sue riflessioni era appunto Marcantonio Colonna. Luogotenente di Giovanni d’Austria nella spedizione in Levante, il Colonna – padre della contessa di Modica Vittoria Colonna - aveva avuto un ruolo assai rilevante nella battaglia navale di Lepanto (1571), che segnò il trionfo della ‘cristianità’ contro il turco. Una vittoria rimasta da allora indelebilmente impressa nell’immaginario collettivo europeo, ma che non impedì ai turchi, appena tre anni dopo, di attaccare con 300 navi Tunisi e di riconquistarla distruggendo le fortificazioni spagnole.
Il 24 aprile 1577 Marcantonio Colonna, su nomina del re Filippo II, faceva il suo trionfale ingresso da viceré in Palermo. Il suo primo provvedimento fu di porre fine all’epidemia che infuriava ormai da due anni in Sicilia: con piglio decisamente pratico e razionalistico, affatto alieno dalle superstizioni che attribuivano il morbo a malocchi e pratiche di magia nera, e in perfetta sintonia e collaborazione con uno scienziato, il protomedico Filippo Ingrassia, puntò rigorosamente su quanti non distruggevano i panni infetti e le suppellettili, punendoli severamente al pari di quanti, medici e barbieri, non rivelavano al governo le persone sospette. In questo modo contenne e debellò la peste dilagante.
Il suo obiettivo primario nel governo dell’isola era di indebolire e spezzare lo strapotere dei nobili: appena nominato fece giustiziare quattro personaggi di alto rango e ordinò l’arresto del marchese della Favara, che fino a quel momento aveva agito nel totale disprezzo delle leggi e del potere vicereale. In questa direzione promosse e condusse una dura repressione del banditismo, perché era consapevole della connivenza fra i capi delle bande armate e i nobili: così assicurò alla giustizia e mandò alla forca immediatamente due banditi famosi, Girolamo Colloca e Rizzo di Saponara, che godevano della protezione di alcuni personaggi altolocati.
Reduce dal trionfo di Lepanto, più di altri avvertiva la gravità della minaccia barbaresca: “il mare è pieno di corsari, che fanno grandi danni nell’isola”, scriveva allarmatissimo il viceré Colonna nel giugno del 1578, mentre le navi del temibile Aluch ‘Alì (volgarizzato dai cronisti del tempo in Ulucchiali), che sembravano avere il dominio assoluto del Mediterraneo, entravano perfino nel golfo di Gela e saccheggiavano la città di Terranova deportandone come schiavi un’ottantina di persone. Qualche mese prima, in aprile, la galera Sant’Angelo, partita da Palermo, era stata catturata dai pirati barbareschi: a bordo c’era, fra gli altri, il poeta Antonio Veneziano – noto anche per la sua difesa del dialetto siciliano contro il toscano e fiero oppositore della spagnolizzazione della lingua e dei costumi isolani -, che nelle prigioni di Algeri strinse amicizia con Miguel de Cervantes.
Marcantonio Colonna promosse l’agricoltura, considerandola l’unica fonte della ricchezza del regno: per attenuare lo stato di forte indebitamento in cui versavano i nobili, infatti, sostenne e incoraggiò il processo di concessioni di terre in enfiteusi. Né mancò di redarguire con aspre lettere i tanti feudatari che concedevano le loro terre feudali a condizioni troppo esose e inique per i contadini: com’è ovvio, inasprì ulteriormente l’opposizione della classe baronale nei suoi confronti.
Come abbiamo visto, il viceré Marcantonio Colonna si era inimicato tanti nobili con la sua politica fermamente antibaronale, così che questi avevano fatto lega con il Sant’Uffizio. Verso l’Inquisizione, peraltro, il Colonna aveva sempre manifestato una grande avversione, affermando in qualche occasione che preferiva avere duecento eretici in Sicilia piuttosto che vedere alcune persone ingiustamente condannate, e ne auspicava la cessazione di ogni attività in Sicilia. Nel novembre 1577, appena qualche mese dopo essersi insediato, Marcantonio Colonna con piglio duro e polemico aveva sollecitato e ottenuto dal Tribunale dell’Inquisizione la lista di quelli che lui definiva “todos los ricos nobles y los ricos delinquentes”, cioè di tutti gli ufficiali e dei cosiddetti “familiari” del Sant’Uffizio.
Chi erano costoro? Bisogna sapere che, a parte gli Inquisitori, vi erano ben 1.712 dipendenti del Sant’Uffizio: commissari, notai, tenenti di commissari e tenenti di ricevitori sparsi in tutte le città, terre, comuni e casali della Sicilia. A questi si deve aggiungere appunto l’esercito infinito dei “familiari”. Costoro dovevano tener di vista gli eretici e denunziarli, aiutare gli sgherri dell’Inquisizione per imprigionarli, difendere e proteggere la persona degl’inquisitori stessi, e fare insomma tutto quello di cui potevano essere richiesti. In compenso godevano dell’esenzione dalla giurisdizione dei tribunali ordinari e dell’immunità fiscale. Iscrivendosi pertanto a quel Tribunale, solo da esso potevano essere giudicati e perciò costituivano una società a parte.
Si calcola che verso la fine del Cinquecento, considerando tutti i congiunti, i servi, i dipendenti, i commensali di ciascun addetto a quel Tribunale, e poi tutti i vassalli dei feudatari che erano alle dipendenze di quel foro privilegiato con un incarico qualunque, si arriva alla cifra straordinaria di 30.000 unità.
Per quanto riguarda la nostra contea, Modica aveva 20 familiari, Ragusa 15, Scicli 15, Chiaramonte 12, Monterosso 6, Giarratana 6, Comiso 6, Spaccaforno 6 e Biscari 2. Appartenevano a ogni ordine sociale, in quanto c’erano cavalieri e conti, baroni e artigiani, contadini e quanti, avendo in sospeso un conto con la giustizia che prevedeva la tortura e la pena capitale, preferivano sfuggirle e mettersi sotto la protezione di quella grande famiglia. Ché in effetti quella associazione così vasta e capillare, che attraversava tutti i ceti e godeva della esenzione da ogni tipo di contribuzione e di tassa e della più assoluta impunità, che esercitava l’usura ed esigeva un ‘pizzo’ sotto la minaccia di deferire la gente onesta al tremendo Sant’Uffizio, molto assomigliava alle ‘famiglie’ mafiose di tempi ben più recenti.
Lo spirito estremamente razionale e illuministico ante litteram di Marcantonio Colonna scatenò le reazioni degli inquisitori Diego de Haedo e Juan de Rojas, che lo denunciarono al re con un ampio e dettagliato memorandum. Qui si parlava anche di una relazione extraconiugale fra il viceré e la baronessa Eufrosina Zaragossa, moglie di Galcerano Corbera barone di Miserendino, il quale, recatosi a Malta insieme con il fratello di quello Pompeo Colonna, nel corso di una missione presso i Cavalieri gerosolimitani disposta dal viceré nel 1581, era stato trovato in una via della Valletta con il corpo crivellato di pugnalate.
In quel memorandum si lasciava intendere che il viceré fosse il mandante dell’assassinio del barone di Miserendino. Poteva trattarsi benissimo di una montatura degli inferociti inquisitori, come una montatura fu anche l’altra accusa che in quel dossier inviato al Filippo II gli si mosse: che il viceré fosse legato da stretta amicizia al temibile Aluch ‘Alì (Ulucchiali), comandante della flotta turca, e che avesse avviato con lui trattative segrete per uno scambio di prigionieri turchi e cristiani. Fatto è che l’Inquisizione riuscì a sbarazzarsi di quel fiero oppositore. Il re nel 1584 lo richiamò in Spagna, vuoi per chiedergli conto delle accuse mossegli, vuoi per rimuoverlo dall’incarico affidandogli un posto di comando in quella Invencible Armada che di lì a poco (1588) sarebbe stata sconfitta dalla flotta inglese di sir Francis Drake. Nell’estate di quello stesso anno 1584 Marcantonio Colonna moriva durante il viaggio verso la Spagna quasi alle porte di Madrid, prima di poter incontrare il sovrano.
Restò il sospetto che fosse stato avvelenato dai sicari degli inquisitori. “Un fatto rimane certo - scrisse nei primi del Novecento lo storico C.A. Garufi - in queste due accuse: […] che Marcantonio morì di mano assassina e nulla si tralasciò perché la colpa non s’attribuisse a chi reggeva l’Inquisizione in Sicilia o visitava il Regno per ordine di Filippo II. E così per parecchi secoli il più tremendo mistero ha avvolto nelle più infamanti calunie gli ultimi anni d’un vero eroe, che aveva voluto e saputo raffrenare l’opera nefanda del S. Officio a servizio della corte Spagnuola”.
FRANCESCO EREDDIA
Negli “Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia” il messinese Scipio Di Castro elaborava acute riflessioni sulla storia della Sicilia attraverso l’avvicendarsi dei vari viceré, sulle principali istituzioni dell’isola, sul carattere dei siciliani (considerazioni, queste ultime, rimaste celebri) e sulla questione frumentaria, da cui dipendevano e i successi dei viceré e le condizioni materiali di vita della popolazione.
Destinatario delle sue riflessioni era appunto Marcantonio Colonna. Luogotenente di Giovanni d’Austria nella spedizione in Levante, il Colonna – padre della contessa di Modica Vittoria Colonna - aveva avuto un ruolo assai rilevante nella battaglia navale di Lepanto (1571), che segnò il trionfo della ‘cristianità’ contro il turco. Una vittoria rimasta da allora indelebilmente impressa nell’immaginario collettivo europeo, ma che non impedì ai turchi, appena tre anni dopo, di attaccare con 300 navi Tunisi e di riconquistarla distruggendo le fortificazioni spagnole.
Il 24 aprile 1577 Marcantonio Colonna, su nomina del re Filippo II, faceva il suo trionfale ingresso da viceré in Palermo. Il suo primo provvedimento fu di porre fine all’epidemia che infuriava ormai da due anni in Sicilia: con piglio decisamente pratico e razionalistico, affatto alieno dalle superstizioni che attribuivano il morbo a malocchi e pratiche di magia nera, e in perfetta sintonia e collaborazione con uno scienziato, il protomedico Filippo Ingrassia, puntò rigorosamente su quanti non distruggevano i panni infetti e le suppellettili, punendoli severamente al pari di quanti, medici e barbieri, non rivelavano al governo le persone sospette. In questo modo contenne e debellò la peste dilagante.
Il suo obiettivo primario nel governo dell’isola era di indebolire e spezzare lo strapotere dei nobili: appena nominato fece giustiziare quattro personaggi di alto rango e ordinò l’arresto del marchese della Favara, che fino a quel momento aveva agito nel totale disprezzo delle leggi e del potere vicereale. In questa direzione promosse e condusse una dura repressione del banditismo, perché era consapevole della connivenza fra i capi delle bande armate e i nobili: così assicurò alla giustizia e mandò alla forca immediatamente due banditi famosi, Girolamo Colloca e Rizzo di Saponara, che godevano della protezione di alcuni personaggi altolocati.
Reduce dal trionfo di Lepanto, più di altri avvertiva la gravità della minaccia barbaresca: “il mare è pieno di corsari, che fanno grandi danni nell’isola”, scriveva allarmatissimo il viceré Colonna nel giugno del 1578, mentre le navi del temibile Aluch ‘Alì (volgarizzato dai cronisti del tempo in Ulucchiali), che sembravano avere il dominio assoluto del Mediterraneo, entravano perfino nel golfo di Gela e saccheggiavano la città di Terranova deportandone come schiavi un’ottantina di persone. Qualche mese prima, in aprile, la galera Sant’Angelo, partita da Palermo, era stata catturata dai pirati barbareschi: a bordo c’era, fra gli altri, il poeta Antonio Veneziano – noto anche per la sua difesa del dialetto siciliano contro il toscano e fiero oppositore della spagnolizzazione della lingua e dei costumi isolani -, che nelle prigioni di Algeri strinse amicizia con Miguel de Cervantes.
Marcantonio Colonna promosse l’agricoltura, considerandola l’unica fonte della ricchezza del regno: per attenuare lo stato di forte indebitamento in cui versavano i nobili, infatti, sostenne e incoraggiò il processo di concessioni di terre in enfiteusi. Né mancò di redarguire con aspre lettere i tanti feudatari che concedevano le loro terre feudali a condizioni troppo esose e inique per i contadini: com’è ovvio, inasprì ulteriormente l’opposizione della classe baronale nei suoi confronti.
Come abbiamo visto, il viceré Marcantonio Colonna si era inimicato tanti nobili con la sua politica fermamente antibaronale, così che questi avevano fatto lega con il Sant’Uffizio. Verso l’Inquisizione, peraltro, il Colonna aveva sempre manifestato una grande avversione, affermando in qualche occasione che preferiva avere duecento eretici in Sicilia piuttosto che vedere alcune persone ingiustamente condannate, e ne auspicava la cessazione di ogni attività in Sicilia. Nel novembre 1577, appena qualche mese dopo essersi insediato, Marcantonio Colonna con piglio duro e polemico aveva sollecitato e ottenuto dal Tribunale dell’Inquisizione la lista di quelli che lui definiva “todos los ricos nobles y los ricos delinquentes”, cioè di tutti gli ufficiali e dei cosiddetti “familiari” del Sant’Uffizio.
Chi erano costoro? Bisogna sapere che, a parte gli Inquisitori, vi erano ben 1.712 dipendenti del Sant’Uffizio: commissari, notai, tenenti di commissari e tenenti di ricevitori sparsi in tutte le città, terre, comuni e casali della Sicilia. A questi si deve aggiungere appunto l’esercito infinito dei “familiari”. Costoro dovevano tener di vista gli eretici e denunziarli, aiutare gli sgherri dell’Inquisizione per imprigionarli, difendere e proteggere la persona degl’inquisitori stessi, e fare insomma tutto quello di cui potevano essere richiesti. In compenso godevano dell’esenzione dalla giurisdizione dei tribunali ordinari e dell’immunità fiscale. Iscrivendosi pertanto a quel Tribunale, solo da esso potevano essere giudicati e perciò costituivano una società a parte.
Si calcola che verso la fine del Cinquecento, considerando tutti i congiunti, i servi, i dipendenti, i commensali di ciascun addetto a quel Tribunale, e poi tutti i vassalli dei feudatari che erano alle dipendenze di quel foro privilegiato con un incarico qualunque, si arriva alla cifra straordinaria di 30.000 unità.
Per quanto riguarda la nostra contea, Modica aveva 20 familiari, Ragusa 15, Scicli 15, Chiaramonte 12, Monterosso 6, Giarratana 6, Comiso 6, Spaccaforno 6 e Biscari 2. Appartenevano a ogni ordine sociale, in quanto c’erano cavalieri e conti, baroni e artigiani, contadini e quanti, avendo in sospeso un conto con la giustizia che prevedeva la tortura e la pena capitale, preferivano sfuggirle e mettersi sotto la protezione di quella grande famiglia. Ché in effetti quella associazione così vasta e capillare, che attraversava tutti i ceti e godeva della esenzione da ogni tipo di contribuzione e di tassa e della più assoluta impunità, che esercitava l’usura ed esigeva un ‘pizzo’ sotto la minaccia di deferire la gente onesta al tremendo Sant’Uffizio, molto assomigliava alle ‘famiglie’ mafiose di tempi ben più recenti.
Lo spirito estremamente razionale e illuministico ante litteram di Marcantonio Colonna scatenò le reazioni degli inquisitori Diego de Haedo e Juan de Rojas, che lo denunciarono al re con un ampio e dettagliato memorandum. Qui si parlava anche di una relazione extraconiugale fra il viceré e la baronessa Eufrosina Zaragossa, moglie di Galcerano Corbera barone di Miserendino, il quale, recatosi a Malta insieme con il fratello di quello Pompeo Colonna, nel corso di una missione presso i Cavalieri gerosolimitani disposta dal viceré nel 1581, era stato trovato in una via della Valletta con il corpo crivellato di pugnalate.
In quel memorandum si lasciava intendere che il viceré fosse il mandante dell’assassinio del barone di Miserendino. Poteva trattarsi benissimo di una montatura degli inferociti inquisitori, come una montatura fu anche l’altra accusa che in quel dossier inviato al Filippo II gli si mosse: che il viceré fosse legato da stretta amicizia al temibile Aluch ‘Alì (Ulucchiali), comandante della flotta turca, e che avesse avviato con lui trattative segrete per uno scambio di prigionieri turchi e cristiani. Fatto è che l’Inquisizione riuscì a sbarazzarsi di quel fiero oppositore. Il re nel 1584 lo richiamò in Spagna, vuoi per chiedergli conto delle accuse mossegli, vuoi per rimuoverlo dall’incarico affidandogli un posto di comando in quella Invencible Armada che di lì a poco (1588) sarebbe stata sconfitta dalla flotta inglese di sir Francis Drake. Nell’estate di quello stesso anno 1584 Marcantonio Colonna moriva durante il viaggio verso la Spagna quasi alle porte di Madrid, prima di poter incontrare il sovrano.
Restò il sospetto che fosse stato avvelenato dai sicari degli inquisitori. “Un fatto rimane certo - scrisse nei primi del Novecento lo storico C.A. Garufi - in queste due accuse: […] che Marcantonio morì di mano assassina e nulla si tralasciò perché la colpa non s’attribuisse a chi reggeva l’Inquisizione in Sicilia o visitava il Regno per ordine di Filippo II. E così per parecchi secoli il più tremendo mistero ha avvolto nelle più infamanti calunie gli ultimi anni d’un vero eroe, che aveva voluto e saputo raffrenare l’opera nefanda del S. Officio a servizio della corte Spagnuola”.
FRANCESCO EREDDIA